Giorgio Aldini della Xform: “Riparate gente, riparate”

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Oltre a ritenere che lo stampista debba esserE chiamato in causa in prima persona sin dalle fasi iniziali dei processi produttivi e dunque a partire dalla progettazione, il designer Giorgio Aldini pone l’opera creativa della riparazione al centro di una nuova fase di valorizzazione dell’artigianato
Il designer emiliano Giorgio Aldini al lavoro. Nel nome del suo studio, Xform, il segno grafico della X
Il designer emiliano Giorgio Aldini al lavoro. Nel nome del suo studio, Xform, il segno grafico della X

Con la sua Xform il designer emiliano Giorgio Aldini ha messo in cantiere e in portfolio realizzazioni che spaziano dalle soluzioni per il mondo dell’auto dove vanta clienti come Volvo o Fiat sino a quelle per l’infanzia con referenze presso Ok Baby; e alla nautica, con Azimut Benetti.

La vastità dei suoi interessi si fonda sulla precisa convinzione che «il design è l’equivalente del progetto e in virtù di questa etimologia può essere applicato agli ambiti più disparati, dall’industria all’abbigliamento e persino al settore alimentare». Il nocciolo della questione sta piuttosto altrove: «La contemporaneità tende spesso a far prevalere l’aspetto estetico su quello funzionale», ha detto Aldini a Stampi, «e dunque a far sì che le strategie e le politiche dell’apparenza fagocitino la realtà fattuale e con questa anche la più profonda utilità degli oggetti». Si tratta appunto di un’evoluzione recente poiché a memoria di Aldini «un tempo la frattura fra le arti del bello da un lato e la produzione industriale, era molto netta». In un contesto simile era evidentemente «la forma» a mettersi al servizio della «funzione» e l’esempio di tale modo di sentire si trova alla portata di tutti: «Basti pensare alle penne biro Bic», che secondo Aldini ritrovano la loro modernità nel concetto del «less is more». Il nuovo approdo a una differente concezione dello stile e della progettazione in tempi di crisi della tradizionale produzione di largo consumo può passare per altre strade agevolate dal ricorso all’hi-tech: «In questo senso la personalizzazione di massa è certamente un modello possibile. Ma la stagnazione delle produzioni in serie può offrire opportunità impensabili anche all’artigianato». 

Veicolo ATV per l’azienda cinese Linhai. “Per questo progetto – spiega Aldini - abbiamo curato il design e l’ingegnerizzazione delle parti in plastica”
Veicolo ATV per l’azienda cinese Linhai. “Per questo progetto – spiega Aldini – abbiamo curato il design e l’ingegnerizzazione delle parti in plastica”

A quali potenzialità allude?

Da più parti giungono sollecitazioni per un’accelerazione del ricorso al riciclo dei materiali. Senza considerare che si tratta di un procedimento antieconomico implicante l’azzeramento della storia di ogni manufatto o materiale. Al contrario l’accento dovrebbe esser posto a mio avviso sull’idea della riparazione, una scelta politica che restituisce dignità al prodotto e soprattutto al lavoro artigianale.

Il risultato?

È che ad arricchirsi di valore è una lavorazione che simbolicamente riunisce in sé i più importanti aspetti della creatività. Perché la manualità è eminentemente creativa a qualunque livello. Dall’invenzione pura alla citata riparazione, passando per il miglioramento e l’aggiornamento.

Una strada che dà i suoi frutti?

Un percorso senz’altro già affollato. Penso alle richieste di intervento e dunque di personalizzazione nel calzaturiero. Ma penso anche alla pratica diffusa in varie zone dell’Emilia del restauro delle auto d’epoca. In questo caso personalizzazione e riparazione sono due facce di un’identica medaglia.

Quali sono i vantaggi economici che ne conseguono?

Riparare significa abbassare l’entropia e il costo richiesto dalle trasformazioni tipiche del riciclo e in più vuol dire ridurre questa spesa in virtù di una consolidata competenza di natura tecnica. Il mio punto di vista è che donare una nuova vita agli oggetti sia di per sé fonte di ricchezza. E non solo.

Qual è l’altro aspetto di rilievo?

Adottata idealmente su una scala più vasta la filosofia del recupero può concedere una seconda esistenza anche ad aree geografiche del nostro Paese, si pensi soprattutto ad alcune zone del Centro-Sud, in cui è pressoché assente la logica tipicamente settentrionale dei distretti produttivi. Ma che posseggono pratiche produttive millenarie nella lavorazione del legno o del cuoio, per esempio. Posto però che per valorizzarle un matrimonio con le nuove tecnologie è condizione inevitabile.

Idropulitrice ad acqua calda per l’azienda italiana Comet di cui lo studio X-Form ha curato il design e l’ingegnerizzazione delle parti in plastica
Idropulitrice ad acqua calda per l’azienda italiana Comet di cui lo studio X-Form ha curato il design e l’ingegnerizzazione delle parti in plastica

Come celebrarlo?

Mutando in parte pelle e trasformandosi in artigiani 2.0 che acquisiscono e magari condividono macchinari e processi produttivi mettendoli al servizio della loro originalità. Con i suoi scanner o modellatori 3D l’informatica è un facilitatore e un mezzo per perpetuare una grande tradizione.

Una forma di co-design?

Una delle numerose forme possibili, perché a mio avviso la condivisione non è un’opzione: il progetto è condiviso oppure, tout court, non è. E una condivisione basata sull’esperienza umana è d’altronde uno dei tradizionali cardini della mia attività professionale, se non della mia esistenza.

Un metodo non sempre scevro da rischi. 

Volutamente nel nome della mia azienda compare il simbolo grafico della «X». Vuole alludere al fatto che lo sviluppo non è dato una volta per sempre e d’altro canto in qualità di designer il mio compito è sì quello di progettare, ma anche di raccogliere altre idee, verificarle e discuterne mediando sulle contrarietà.

Lo studio X-Form ha curato l’industrializzazione e il design di alcune zone dell’imbarcazione nella foto: uno yacht da 47 metri per i cantieri Benetti di Livorno
Lo studio X-Form ha curato l’industrializzazione e il design di alcune zone dell’imbarcazione nella foto: uno yacht da 47 metri per i cantieri Benetti di Livorno

Che relazione sussiste fra la personalizzazione di massa o mass customization e il co-design?

Il design condiviso implica appunto una collaborazione e una cooperazione forte, una interazione spinta fra gli appartenenti a un medesimo e più o meno esteso gruppo di lavoro. La mass customization amplia ulteriormente questo orizzonte poiché rende partecipi di un processo creativo anche i clienti, rendendo altresì possibile se non inevitabile un differente approccio al marketing. Ed è vincente se è il cliente ad assistere il produttore e in qualche modo a trainarne strategie e azioni.

Presuppone però il dialogo con una clientela piuttosto evoluta, non crede?

Senza dubbio formazione ed educazione degli utenti finali sono condizioni essenziali. Servono interlocutori evoluti ed esigenti anche se non per forza d’elite. Per molti versi appare come un processo di lavorazione e commercializzazione ritagliato a misura degli italiani, un popolo di solisti e per tornare a una definizione già utilizzata in precedenza, ha tutti i crismi dell’artigianato 2.0. 

Potrebbe fornircene qualche esempio tratto dalla sua esperienza?

Mi è capitato di lavorare a un modello di calzature di lusso per signora realizzate in titanio sinterizzato e leghe di alluminio fresate solitamente utilizzate per esempio nell’industria aeronautica. Si tratta chiaramente di scarpe-gioiello con un costo di mercato calcolabile attorno ai 1.000 euro che in altri contesti e altri tempi sarebbero state inevitabilmente realizzate a mano visto che una produzione industriale di serie sarebbe stata quasi considerata di rango inferiore, svilente e troppo onerosa da avviare.

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E invece ora?

È accaduto che le risorse della tecnologia abbiano permesso di operare nella veste di artigiano o artista alla corte dell’industria e grazie a procedimenti in uso nell’industria. E che abbiano consentito la perpetuazione di una tradizione in via d’estinzione con altre forme e altri strumenti.

Qual è il paradigma ideale della mass customization?

Un ottimo esempio viene dalla procedura seguita per la creazione delle divise di alcune squadre locali di vigili del fuoco statunitensi. Inizialmente venivano fornite in tre sole taglie, con gli ovvi problemi di adattamento che potevano derivare da una simile scelta. Il quadro è radicalmente cambiato e naturalmente per il meglio quando si è deciso di ricorrere alla scannerizzazione dei pompieri stessi e delle loro misure. Il contributo dell’hi tech ha permesso di dar vita a un taglio personalizzato e allo stesso tempo destinato alla massa, realizzato su misura in modo sartoriale.

Anche in questo caso i benefici sembrano essere economici prima ancora che estetici. 

Quel che ho definito artigianato 2.0 e le molteplici forme della personalizzazione di massa contribuiscono all’accorciamento della filiera produttiva e aderiscono a una logica da kilometro zero o quasi. Ma quel che è inoltre interessante rilevare nell’esempio dei fireman d’oltreoceano è che il taglio sartoriale ha costi identici a quello della precedente e più schematica produzione secondo le taglie.

Sullo sfondo del quadro da Lei descritto quale ruolo potrebbero giocare gli stampisti?

Direi innanzitutto che relazionarsi con il mondo degli stampi significa innanzitutto riconoscere o più propriamente riscoprire per valorizzarla nuovamente la funzione dello stampo come generatore non soltanto di manufatti ma anche di idee. Dialogare più fittamente con gli stampisti implica riconoscere lo stampo come genitore, idea antica suggerita anche dal fatto che uno stampo ha natura maschile e femminile contemporaneamente, è matrice e punzone. E porta con sé il riconoscimento dei professionisti di questo settore come creativi per antonomasia e per eccellenza originali. Non può essere trascurato il fatto che lo stampista per poter produrre deve pensare le forme al contrario.

Su quali basi può avere luogo il colloquio fra stampi e design?

Considero a volte i designer come dei novelli Caronte che traghettano le idee sulla sponda del fiume presso la quale possono tramutarsi in realtà grazie anche all’ingegnerizzazione In inglese il processo ha un nome più pregnante. È l’embodiement, allude alla conquista della corporeità di un concetto. Ma occorre parlare la stessa lingua e se i designer debbono comprendere le potenzialità degli stampisti, dal canto loro le officine devono saper leggere lo spartito che i progettisti hanno scritto per loro.

Come in un ensemble sinfonico?

I professionisti dello stampo sono l’orchestra, il designer ne è il direttore, ma le condizioni necessarie per un’esecuzione d’eccellenza sono che musicisti e maestro collaborino e che gli strumentisti abbiano piena consapevolezza di ciò che stanno suonando. Dal canto suo il designer deve comporre una melodia adatta ai suoi interpreti, perché la si possa intonare insieme a più voci.

Giorgio Aldini
Giorgio Aldini

Una considerazione che in parte sembra richiamare nuovamente il tema del co-design. 

Senza dubbio si tratta di un processo di collaborazione e di uno schema di attività in cui lo stampista deve essere coinvolto dalle prime battute, sin dalle fasi iniziali della stesura di un progetto. Ed è anzi auspicabile che il dialogo fra chi progetta e chi stampa possa iniziare ancora prima che nascano le idee, cosicché dalle esigenze stesse dello stampaggio possano magari sorgere delle novità. Perché nonostante sia a volte percepito come uomo votato più alle opere di elevata precisione che non a quelle che richiedono fantasia, lo stampista è anche un pioniere ed esploratore di percorsi impensati.

Ma rischia di trovarsi senza eredi causa l’assenza di un’istruzione adeguata. Come rimediare?

Riportando o portando per la prima volta le scolaresche nelle botteghe artigiane o dello stampo. Come accade in altri ambiti come quello del gusto con trasmissioni televisive che celebrano lo stare ai fornelli come arte creativa incrementando così nei giovani la consapevolezza del cibo. Serve per tornare a dare senso profondo al lavoro e spostare il baricentro sulla manualità, sulla produzione.

Un obiettivo possibile?

Un traguardo inevitabile, perché se la contemporaneità che ha eletto a suoi cardini il possesso e le apparenze è anche un tale ricettacolo di infelicità, significa che dobbiamo avere sbagliato qualcosa. E che forse è tempo di dare vita a una nuova rivoluzione copernicana che non soltanto sia in grado di rivalutare e riabilitare l’attività produttiva e non puramente speculativa. Ma che superi il trinomio ormai consolidato dell’avere-essere-apparire ponendo domande sopite. Non più: «Chi sei?»; bensì: «Di che cosa sei capace?». Ecco, forse è il caso di ricominciare da qui.

0 risposte

  1. L’idea della riparazione anzichè il riciclo è assolutamente affascinante…. Peccato però che essa implichi, necessariamente, una riduzione dei volumi di produzione del nuovo…..e ciò non verrà mai permesso dai padroni del nostro tempo, ovvero i vampiri della finanza.

    Cordiali saluti,
    Lorenzo

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