E adesso sono dazi

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Alla mezzanotte del 30 maggio sono scattati ufficialmente i nuovi provvedimenti che in base alla Section 232 l’amministrazione statunitense di Donald Trump ha imposto all’import di acciaio e di alluminio verso il paese, con tariffe aggiuntive del 25 e del 10% rispettivamente.

Un’azione di «puro protezionismo» che va a impattare duramente «una partner molto stretta dal punto di vista economico, geo-strategico e politico». Sono queste le parole con le quali il direttore generale di Eurofer Axel Eggert ha commentato gli eventi di quella che ha definito «una giornata pessima per il sistema degli scambi globali». Il 30 maggio il segretario di Stato Usa per il Commercio Wilbur Ross ha infatti ufficializzato il varo di una misura molto temuta dai panorami siderurgici internazionali e in particolare da quello europeo. Quest’ultimo, rappresentato appunto da Eurofer, esprime un fatturato complessivo di 170 miliardi di euro e impiega direttamente circa 320 mila professionisti in 500 impianti. Dal primo giugno del 2018 sulle vendite agli Usa di acciaio e alluminio made in Europe peseranno dazi del 25 e del 10% rispettivi, come già precedentemente paventato. Identiche misure sono destinate poi a colpire il Messico e il Canada, altre due nazioni rimaste sino a questo momento estranee a una guerra tariffaria, mirata invece da principio contro la Cina e la Russia. La Casa Bianca ha agito sulle basi della Sezione 232 del Trade Expansion Act siglato nel 1962, che prevede il ricorso a degli strumenti difensivi di questo tenore nel nome della sicurezza nazionale. L’Unione europea, come sottolineato dallo stesso Axel Eggert, è adesso chiamata a mettere in atto politiche di difesa rispetto a una possibile invasione di prodotti prima diretti verso Washington e quindi dirottati verso «il più grande mercato siderurgico aperto nel mondo». Quello del Vecchio Continente, appunto, dove già nei primi mesi del 2018 i dazi diretti dagli Stati Uniti contro altri paesi hanno innescato un’ondata di acquisti e un’impennata (+8,4%) dell’import fra gennaio e aprile. Canada (26%) ed Europa (16%: Germania e Italia vi partecipano nell’ordine con uno share del 5 e del 2%) sono i fornitori primari di acciaio e alluminio agli States, la cui minor domanda creerebbe perdite annue da 14 miliardi di dollari.

Effetto domino

Già nel recente passato Eurofer aveva agitato lo spettro di una riduzione dell’import di acciaio oltre l’Atlantico dai 35 milioni di tonnellate l’anno attuali a 20-25 milioni di tonnellate. Ha calcolato in circa 5 miliardi di dollari il valore economico dell’export europeo e in un miliardo complessivo l’incidenza del dazio. Inferiore, ma non per questo poco significativo, è in questo contesto il peso dell’alluminio. Le vendite di questo materiale agli Usa generano un business da 1.2 miliardi di dollari, secondo stime di European Aluminium, riprese anche da altre fonti di stampa. In cima ai pensieri delle autorità di Bruxelles c’è quindi la necessità di arginare il possibile rimbalzo dei materiali dal Nord America all’Ue. Tuttavia, il pericolo vero è un clamoroso effetto domino in base al quale le aziende penalizzate dalle duty tariff ridurrebbero gli acquisti di beni interni dai loro fornitori, nazionali e non. Cioè a dire che, come è stato notato anche altrove, un impatto negativo dei dazi sull’industria tedesca si tradurrebbe in un decremento delle vendite di acciaio e alluminio italiani a Berlino. A soffrire, insomma, sarebbe nel suo complesso la filiera continentale siderurgica e dell’alluminio. «La strategia di Donald Trump è basata sul dotarsi di un forte strumento di negoziazione nei confronti dei partner commerciali – ha detto senza mezzi termini a Lamiera News il trader ed esperto del mercato degli acciai Alessandro Fossati, della ticinese Gamma Trade Saallo scopo di rinegoziare i trattati in essere per spuntare delle condizioni più favorevoli al suo Paese. Canada, Messico ed Europa sinora non erano scese a patti e il braccio di ferro aveva funzionato con il Brasile o la Corea, non già con gli altri esclusi dall’esenzione dai dazi e cioè Russia, Turchia, Cina». Preoccupante non è però la Trump-politics in sé, quanto piuttosto la controreazione europea.

Manifattura e distribuzione a rischio

«In un momento di slancio dell’industria e della manifattura continentali in genere – ha osservato Fossati la disponibilità di un maggiore quantitativo di acciaio causata dai dazi americani dovrebbe essere salutata positivamente poiche’ in grado di migliorare la competitività dell’industria europea. Al contrario, mi sembra che l’intenzione sia quella di rispondere con l’innalzamento di altre barriere, rispetto quelle già in essere, anche da paesi extra-Usa». Perché non va dimenticato che «a dispetto della capacità produttiva installata da 240 milioni di tonnellate l’anno dei suoi stabilimenti e di un consumo da 160 milioni, l’Europa non e’ in grado di soddisfare, su alcuni prodotti destinati principalmente alla manifattura, il 100% del fabbisogno domestico ed è pertanto fisiologico che essa importi circa il 25% del fabbisogno». Si rumoreggia ora che, dopo avere tassato l’import degli otto milioni di tonnellate tipicamente in arrivo da Cina e Russia («acquistabili liberamente sino a due anni fa») l’Unione intenda difendere ulteriormente le acciaierie europee limitando o penalizzando l’import da Turchia, India e Corea. Questo non rappresenterebbe un problema per le acciaierie, la cui marginalità finirebbe anzi per essere enormemente favorita. Lo sarebbe per le imprese che utilizzano l’acciaio, per i canali di distribuzione, i trader, porti e spedizionieri. «Il pericolo è poi una ulteriore delocalizzazione della produzione di prodotti ad alto contenuto di acciaio», ha detto Fossati.

di Roberto Carminati

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