Alessandro Coppola (ENEA): ripresa, situazioni e prospettive

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Abbiamo chiesto ad Alessandro Coppola di tracciarci un quadro sulla situazione del nostro paese in questo complesso 2020.

La globalizzazione, che fino ad oggi abbiamo conosciuto prevalentemente in chiave economica, in questo 2020 ci sta prospettando uno scenario di complessità aumentata. Con i virus abbiamo tutti poca confidenza e ne siamo un po’ frastornati. La tempestività è stata tale che ci chiediamo se i paradigmi sui quali abbiamo modulato nel tempo strategie e scelte di percorsi per il perseguimento del nostro benessere, sono ancora validi. Siamo un paese resiliente e, pur in un contesto di incertezze, stiamo già cercando soluzioni per sostenerlo economicamente e ricominciare un percorso ancora più virtuoso. Ma, ce la dobbiamo mettere tutta… e ancora di più! Non possiamo non ricordare che la nostra struttura economica è costituita da Pmi con risorse limitate in tutte le sue articolazioni. Che la nostra produttività, anche se facciamo fatica a capirlo, è una delle più basse del continente europeo. Agevole pensare che se le nuove sacrosante regole dovessero penalizzarla ulteriormente, il paese ne soffrirebbe. Resilienza si, ma dobbiamo supportarla con vigore! Abbiamo chiesto ad Alessandro Coppola, direttore COM dell’ENEA – Agenzia Nazionale per le Nuove Tecnologie, l’Energia e lo Sviluppo Economico Sostenibile, di tracciarci un quadro sulla situazione del nostro Paese.

Usciti soltanto da qualche anno dalla precedente crisi di natura finanziaria e assorbite le turbolenze globali, le nostre imprese devono affrontare un’altra crisi, origine diversa, ma effetti analoghi. Quale il suo pensiero?

La crisi attuale è prima ancora che finanziaria una crisi sociale, relazionale, di certezze e modelli creduti come un dato di fatto, sicuramente uno shock inimmaginabile per le generazioni che non hanno memoria diretta delle guerre del XX secolo. Un’incertezza che richiede capacità di vedere oltre la granularità di tattiche per singoli settori con orizzonti a breve a cui ci siamo abituati per gli investimenti; sicuramente c’è necessità di nuove strategie idonee ad una visione più d’insieme, dove la finanza e la solidità economica delle imprese non sono più elementi da potersi gestire senza chiedersi come potrebbero essere impattati da scenari molto più ampi, come quelli ad esempio dettati da un evento globale e multi-dimensionale quale una pandemia. Probabilmente la domanda giusta non è ‘se’ sarebbe mai successo quello che viviamo oggi, ma ‘quando’, per cause naturali o intenzionali: ai tempi del colera ci vollero quindici anni perchè tale malattia arrivasse in Europa, oggi bastano poche ore, quindi il fatto che una epidemia si possa spandere a livello globale prima di perdere forza è una certezza in un mondo ormai così connesso e piccolo in termini di tempi di spostamento. Nonostante la tragicità e luttuosità del Covid-19, che tutti ci addolora profondamente e ancora abbiamo difficoltà a superare, forse sarebbe potuto esser anche peggio e con minori prospettive di trovare cure e rimedi in tempo utile. Adesso ce ne rendiamo conto, sicuramente nel breve-medio termine avremo ben presente che una eventuale recrudescenza oppure una nuova ancor più aggressiva sfida, magari anche non a ‘casa nostra’, possa facilmente creare una nuova onda che ci investirebbe comunque anche solo marginalmente“.

Eventuali recrudescenze, nuove ardue sfide. Stiamo imparando qualcosa?

Uno ‘shock’ agli usuali modelli di riferimento in tempi anche imprevedibilmente brevi è quindi dimostrato come un rischio reale e non ci potremo permettere di non aver imparato qualcosa da questa prima prova: avere quindi un piano ‘B’ rispetto al business as usual in condizioni di ‘normalità’ sarà un must per tutti, probabilmente anche per essere attrattivi come aziende e ‘sistema paese’ nei confronti di investitori non più solo attenti a parametri di valutazione ‘tradizionali’. La pandemia è un enorme stress test sia dei modelli organizzativi che della tenuta finanziaria di stati e imprese, mi sembra molto probabile che nell’indirizzare i flussi d’investimento, gli investitori del prossimo futuro ed i valutatori delle agenzie di rating guarderanno quindi anche alle performance ed ai modelli organizzativi che in tale occasione sono stati implementati, e con quali risultati sulla tenuta del sistema. E le risorse finanziarie saranno quindi indirizzate di conseguenza. Condizioni eccezionali necessitano e spingono a sforzi organizzativi e di ‘rottura’ almeno parimenti eccezionali: gli effetti di una così forte spinta alla digitalizzazione sia nel privato che nella PA probabilmente non li avremmo visti in decenni di ‘normalità’, senza ‘se e ma’ e interessi parziali che, superiori esigenze di salute pubblica, hanno travolto come castelli di carte. Una transizione così veloce da creare difficoltà non solo oggettive, ovvero nel disporre gli opportuni hardware e procedure necessari al decentramento e separazione fisica dei lavoratori, ma anche soggettive nel senso dell’impatto psicologico sui singoli individui che hanno visto cambiare routine e meccanismi molto spesso diventate parte della propria mentalità e visione-gestione della vita. Difficile che anche una ritrovata normalità, seppur con la consapevolezza di aver nuovi rischi in tempi futuri, non sia fortemente segnata dal cambiamento ormai avviato, con effetti anche positivi se sapremo gestire l’impatto psicologico di un accentuato isolamento e virtualizzazione delle interazioni tra collaboratori“.

Cambieranno le logiche imprenditoriali e di mercato?

Circa i settori industriali, è interessante osservare come la globalizzazione e ridistribuzione delle produzioni abbia seguito le dinamiche di commoditizzazione dei prodotti finali; tipicamente nei paesi a più alto costo di manodopera e più stringenti vincoli di sostenibilità ambientale le produzioni di beni di massa a basso contenuto di tecnologia e venduti ‘a peso’, sono state abbandonate alla ricerca di marginalità riconosciute per il contenuto d’innovazione delle produzioni. Prodotti quindi importanti non perchè rispondenti a esigenze primarie, ad esempio le mascherine, la prima barriera in difesa del contagio, demandate ad un sistema di scambi considerato ormai scontato, ma importanti in quanto in grado di attrarre investimenti e garantire difesa della marginalità almeno fino alla loro commoditizzazione. Difficile pensare che l’industria possa sfuggire a logiche di questo tipo, probabilmente poco efficiente pensare di rendere attrattive commodity con l’iniezione di incentivi che avrebbero carattere permanente, insostenibile pensare di lasciarne il rapporto disponibilità-prezzo nelle mani del mercato; per queste produzioni di carattere ‘strategico’ penserei piuttosto ad iniziative come ad esempio sul modello virtuoso dell’Istituto Farmaceutico Militare“.

Nell’adozione di quanto identificato sopra, quali i nostri punti di forza?

Sicuramente uno scenario molto sfidante, soprattutto per un tessuto industriale molto frammentato in Pmi, soprattutto piccole, con limitate risorse finanziarie e scarsa propensione a fare sistema. La forza sta forse in un ‘difettoi tipico degli Italiani, cioè avere un senso di autocritica forse anche troppo sviluppato, rispetto ai nostri parenti europei, essendo spesso troppo attenti a sottolineare ciò che da noi non va rispetto alle tante eccellenze e magari facendo buon gioco a chi invece ha un atteggiamento opposto nella competizione internazionale, salvo poi scoprire quasi con sorpresa che siamo molto più coriacei, responsabili e capaci di affrontare i problemi seri con serietà quando però siamo messi alle strette. Una sorta di reminiscenza della grande eredità di storia, pionierismo, sfide e battaglie, di cui è ricco il nostro passato ed in fondo ci fa invidiare da molti, che ci rende quindi più determinati nel fare le cose quando finalmente decidiamo che è arrivata la necessità. Così è nel tessuto delle realtà medio-piccole che devono vincere le loro battaglie quotidiane per la sopravvivenza in un mondo orientato alla globalizzazione, un tratto evoluto del nostro DNA che sarà un importantissimo fattore nel rilanciare una economia così duramente battuta dalla pandemia. Anche la nostra impostazione culturale sostanzialmente umanistica, se per certi versi ci rende meno avvezzi all’interpretazione oggettiva delle statistiche, peraltro valorizza l’importantissimo fattore della solidarietà e coesione sociale aldilà di egoismi personali; considerare il lavoro e il benessere come valori che si fertilizzano ed arrichiscono nella condivisione e reciproco supporto, sarà uno degli elementi determinanti nella determinazione con cui affrontare il difficile percorso dei prossimi mesi“.

Quali le debolezze?

La debolezza è forse in primo luogo nella frammentazione, sia nell’indirizzo politico-organizzativo dei territori che nel tessuto industriale. Senza un coordinamento tra regioni e pianificazioni comuni con visibilità e solidità di lungo termine, difficile che si intraprendano percorsi efficienti e produttivi nel rilancio dell’economia quasi confidando, per un riallineamento su scala nazionale, su dinamiche evoluzionistiche magari guidate dal mercato: già una ripartenza a ‘macchia di leopardo’ significherà introdurre ulteriori fattori d’incertezza ad esempio su logistica, continuità delle filiere, sostenibilità sociale, export. Per quanto riguarda il tessuto produttivo costituito nel 90% dei casi da piccoli soggetti con limitate risorse finanziarie e scarsa propensione a fare sistema, se in condizioni pre-pandemia vi erano scarsi margini operativi per gli investimenti in innovazione adesso l’orizzonte è probabilmente quello della pura sopravvivenza. E senza innovazione il ‘tirare a campare’ va a terminare nel ‘tirare le cuoia’. Non penso che incentivi ‘a pioggia’ siano una soluzione oltre quello che un fiammifero potrebbe rappresentare per un fuoco in mancanza di paglia e legna. Probabilmente la forte spinta alla digitalizzazione andrebbe integrata con strumenti finanziari di incentivo al rilancio all’interno di una strategia mirata a sviluppare sinergie e collaborazioni strutturali tra imprese, infondendo buone pratiche di management ed indirizzi strategici in una prospettiva sistemica: in tal senso centri di eccellenza nazionali sia pubblici, come ENEA, che privati, come società e investitori a forte propensione all’innovazione ed all’export, magari collaborando in veicoli-partenariati innovativi, potrebbero guidare tale percorso virtuoso. In particolare, proprio ENEA si sta fortemente riorientando verso il ruolo riconosciuto di partner sia dell’Industria, che dei soggetti Istituzionali rilevanti, in primis il Mise, quali principali protagonisti nello sforzo di rilancio e innovazione del tessuto produttivo: ciò non limitandosi a mettere sul campo le proprie competenze tecnico-scientifiche, ma con la formazione di professionalità e la creazione di strumenti mirati al trasferimento tecnologico e condivisione di know how applicativo, un esempio importante è la ‘Knowledge Exchange Strateg’” con il programma di Knowledge Exchange, i ‘Knowledege Exchange Officers’ ovvero ricercatori specializzati in partnership con le imprese, e il fondo interno per il ‘Proof of Concept’, e l’imminente organizzazione di iniziative di condivisione-presenza sul territorio per creare relazioni dirette di collaborazione con il tessuto imprenditoriale. Tutto ciò con un coinvolgimento in prima linea dell’agenzia da parte dei summenzionati soggetti Istituzionali nell’introduzione di strumenti di stimolo anche finanziari a progettualità dell’industria mirate all’innovazione“.

Europa, stato, libera imprenditoria: come vede il gioco delle parti?

Necessità assoluta di più Europa, non come slogan ma nel senso di strategie comuni inserite in un rinnovato percorso di convergenza verso una ‘casa comune’. Chi ha conosciuto direttamente le guerre del XX secolo o gliel’hanno raccontate di ‘prima mano’ facilmente capisce il perchè del sogno di Schuman e perchè l’Europa abbia beneficiato nei primi quarant’anni del suo processo di unificazione di un entusiasmo particolare, che nel nuovo secolo sembra andato spegnendosi preoccupantemente. Purtroppo, la memoria si perde velocemente tra generazioni, lasciando spazio al risorgere di estremismi e particolarismi sempre meno sensati un un mondo via via più ‘piccolo’ come quello della nostra era. L’attuale pandemia è una guerra anch’essa e, nonostante la gravità e tragedia, auspicabilmente molto meno estrema negli effetti distruttivi e come impatto sull’economia e libertà di movimento: se vogliamo un promemoria di quello che è stato un ciclico rituale di guerre pluriennali con milioni di morti e città rase al suolo, che la realizzazione di un progetto unitario europeo ha permesso di interrompere per un periodo estremamente lungo. Forse dall’esperienza di questi giorni dovremmo prender coscenza del valore di questa costruzione, ed affrontare in ottica risolutiva i tanti nodi che sono alla fine arrivati al pettine: ci vuole coraggio, forza nel cambiare pur mantenendo le proprie identità, smettere di rimandare i passi necessari ad una maggiore integrazione sperando che il semplice far massa critica nell’allargare l’Unione sia di per se risolutivo, come un tappeto sempre più ampio sotto il quale si nasconde la polvere. È il momento, se chi governa l’Europa non mostrerà in questa occasione la leadership, capacità organizzativa, luminosa lungimiranza che i cittadini si aspettano in un momento buio, anche la definitiva vittoria sul virus sarà una grave sconfitta per le prospettive dei nostri paesi. In questa circostanza, possiamo parlare seriamente di aziende strategiche. Per quanto concerne le attività strategiche, va chiaramente rivisto il paradigma di riferimento: allo stato attuale, vedasi anche l’applicazione della Golden Power, che qualcuno confonde con la superata Golden Share, per strategico si è sempre visto ciò che rappresenti un concentrato di know how o di infrastrutture determinante per la competitività o la sicurezza geopolitica del paese. Comunque sia, settori con elevata marginalità e grandi investimenti in ricerca ed innovazione. La situazione attuale obbliga a ripensare il paradigma, rendendo strategici beni e produzioni che di per sé non hanno nulla di tutto ciò, sono appunto commodity pagate a tonnellate con logiche della massima riduzione dei costi: come dicevo, penso sia difficile che, passata l’emergenza, industria e libera imprenditoria dimostrino entusiasmo per tali tipi di investimenti, a meno che lo stato non si faccia garante di un ritorno per tali investimenti sul territorio nazionale adeguato alle aspettative degli investitori. Il che però significa probabilmente garantire delle rendite e coprire dei costi a caro prezzo per i contribuenti. Probabilmente per coprire tali specifiche esigenze strategiche occorrerà un mix di differenti fonti come, per fare alcuni esempi tra altri: riserve strategiche con approvvigionamento-rinnovo da paesi stranieri a basso costo, produzioni nazionali basate su modelli come quello dell’Istituto Farmaceutico Militare, bandi incentivanti per il rilancio di settori magari già abbandonati dalla nostra grande industria nazionale con applicazione di strumenti di Golden Power, possibilmente orientando tali strumenti incentivanti ad un coinvolgimento delle aziende mediopiccole sia già del settore che riconvertibili“.

Reshoring, nuove filiere, filiere corte ecc. Li ritiene argomenti di discussione?

In un’economia di libero mercato, il driver del decision maker è la marginalità e la sostenibilità della stessa nel lungo termine; un reshoring naturale al di fuori di un periodo di crisi che altera sostanzialmente i segnali di prezzo, lo vedo con difficoltà. A meno che non si continui ad alterare tali segnali ‘artificialmente’ con l’introduzione di incentivazioni di lunghissimo termine, che però bisogna vedere se effettivamente sostenibili. Le filiere saranno tanto più corte quanto più frammentati e guidati da egoismi locali saranno i sistemi geopolitici del futuro; va benissimo il concetto di filiera corta per valorizzare i prodotti tipici dei territori e ridurre il peso ambientale del trasporto ad esempio di generi alimentari, però se pensiamo a produzioni industriali ed ancor più strategiche senza uno specifico valore aggiunto ‘regionale’, fare squadra tra paesi dello stesso continente è un obbligo ed anche una opportunità: per questo ci serve una grande Europa, facciamo la ‘filiera corta Europea’”.

Quale ruolo possono giocare i giovani?

I giovani sono i primi eredi del presente che noi ‘diversamente giovani’ stiamo costruendo con le nostre scelte ed attività di oggi. Forse troppo spesso ci dimentichiamo sogni ed aspettative tendendo più ad amministrare che a migliorare le attività, necessitando di una iniezione di freschezza. Loro lo sanno: tale consapevolezza non dovrebbe però essere quasi rassegnata, ma dovrebbe declinarsi nello sforzo di pretendere un atteggiamento costruttivo e innovativo da parte dei ‘senior’ al potere. Ricordo periodi di grande fervore e partecipazione politica giovanile in decenni passati, voglia di confrontarsi e di difendere il proprio futuro, mi sembra che la nostra era di internet e dei rapporti ‘virtuali’ abbia forse diluito e distratto tali stimoli perdendo la terza dimensione che da spessore ai princìpi ed idee, nonostante il grande potenziale in termini di diffusione della consapevolezza proprio dei ‘social’ come dimostrato circa le tematiche ambientali. Proprio in questo periodo di crisi mi piacerebbe pensare ad una rinata voglia di combattere per un’Europa più unita e solidale, una spinta che solo con l’entusiasmo e la voglia di crescere insieme dei giovani può essere tanto potente da vincere gli emergenti nazionalismi. Ed è in tale comunione di sforzi ed obiettivi che l’impatto sull’economia della corrente pandemia, la quale nelle dinamiche attuali non favorirà la situazione occupazionale, che vede proprio nelle fasce più giovani problemi di inserimento e di precarietà direi ‘strutturali’, potrebbe invece esser tradotta in un game changer a vantaggio delle generazioni anche future“.

di Michele Rossi

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