Effetto della morfologia della superficie tramite test Leeb

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Nel ventaglio delle verifiche che sono possibili per qualificare un rivestimento, un trattamento termico o termochimico, la misurazione della durezza è tra le più efficaci. Per quanto riguarda le procedure conosciute, quella che ha incontrato il maggior successo pratico è la prova di durezza Leeb, che rientra fra i test cosiddetti “a rimbalzo”.

Non è possibile ricavare da questo tipo di misurazioni informazioni sulle cause delle anomalie, e meno che mai indicazioni sulle azioni correttive da intraprendere, ma quando si tratta di capire se tutto è a posto o meno, la durezza diventa un elemento di controllo estremamente efficace. Del resto, la natura profondamente pratica della prova di durezza, così come oggi la conosciamo è confermata anche dalla sua stessa origine, derivata dalla necessità di quello che oggi sarebbe un ingegnere di produzione di verificare le caratteristiche meccaniche dei prodotti in uscita dalla sua acciaieria. Per quasi un secolo la durezza dei materiali è stata misurata a partire dalle caratteristiche dell’impronta lasciata da un penetratore applicato con forza nota sul materiale da testare: un approccio molto semplice ma limitato dal fatto di richiedere attrezzature di laboratorio capaci di accogliere campioni con dimensioni dell’ordine della decina di centimetri, una condizione non sempre applicabile alla stragrande maggioranza dei componenti “reali”. Per questo motivo sul finire del secolo scorso sono stati messo a punto metodi alternativi basati su strumenti portatili utilizzabili in campo, con lo strumento che si posiziona “sopra” il componente invece che essere un campione dell’elemento ad inserirsi “dentro” lo strumento. Tra queste procedure alternative quella che ha incontrato il maggior successo pratico è la prova di durezza Leeb, che rientra tra i test di durezza “a rimbalzo”, ossia tra quei metodi in cui invece di misurare l’impronta lasciata da un penetratore applicato staticamente sul materiale, ad essere misurata è l’energia assorbita dal materiale a seguito dell’impatto dinamico del penetratore.

Dopo aver introdotto in un precedente articolo i principi della misurazione di durezza mediante test Leeb, in questo approfondimento andremo ad affrontare una problematica praticamente ignota alle prove di durezza tradizionale: l’effetto sul risultato finale della finitura superficiale del materiale sottoposto a prova.

Prove a penetrazione vs prove a rimbalzo

La definizione ingegneristica della durezza è dovuta al fisico tedesco Heinrich Hertz, che alla fine del 1800 la caratterizzò come un indice della resistenza alla penetrazione, definendola “la pressione normale, al centro di un’area di contatto, capace di sollecitare il materiale al suo limite di elasticità [realizzando una] deformazione permanente per i corpi plastici ed incipiente fessurazione per quelli fragili”. Da questa interpretazione della durezza come capacità di un materiale di opporsi alla penetrazione di un corpo deriva direttamente la prima applicazione operativa della misurazione della durezza, dovuta agli inizi del 1900 all’ingegnere svedese August Brinell, che da direttore di una acciaieria ricercava una prova in grado di qualificare il materiale prodotto in maniera più rapida della prova di trazione. Nella prova Brinell, tutt’oggi di uso corrente e “madre” di tutte le altre prove basate sul principio dell’indentazione come la Vickers e la Rockwell, il penetratore è una sfera di acciaio temprato (Figura 1) che viene premuta con forza costante, e la durezza Brinell corrisponde al rapporto tra la forza applicata F e la superficie S dell’impronta, a sua volta ricavata geometricamente dal diametro medio, secondo la formula:

Dove:
D = diametro della sfera penetratore
D = diametro medio dell’impronta

In termini generali possiamo quindi dire che la prova di durezza Brinell (e le sue evoluzioni Vickers e Rockwell) quantifica la durezza di un materiale attraverso la sua deformazione plastica, nell’ipotesi che tutta l’energia applicata mediante il carico si trasformi appunto in deformazione plastica del materiale analizzato , secondo un bilancio energetico come da Figura 2. Completamente diverso invece l’approccio delle prove dinamiche a rimbalzo come la Leeb: in questo caso un elemento mobile ma soggetto ad un movimento vincolato viene mandato ad impattare con velocità nota la superficie del materiale sotto osservazione, con il “segnale utile” costituito dalla velocità con cui l’impattatore rimbalza indietro dopo l’impatto.

Il rapporto tra la velocità di rimbalzo e la velocità di impatto, misurate entrambe a 2 mm dalla superficie del materiale sotto osservazione costituisce la quantificazione della durezza del materiale, durezza espressa mediante la grandezza HL (Hardness Leeb):

In Figura 3 sono riportati gli elementi costitutivi di una sonda Leeb, costituita da un corpo cilindrico A entro cui scorre un corpo mobile B di massa nota e dotato di un terminale emisferico C in carburo di tungsteno o diamante. Tale corpo mobile costituisce l’impattatore, e viene propulso da una molla alloggiata nella parte terminale e precaricabile per fornire all’impattatore l’energia desiderata per l’impatto, energia quantificata dalla relazione:

dove m rappresenta la massa del corpo mobile e V la velocità con cui tale corpo mobile impatta il materiale in osservazione. In Figura 4 è riportato il bilancio energetico dell’impatto: sempre ragionando in termini energetici, confrontare le velocità prima dopo l’impatto equivale quindi a confrontare le energie possedute dal corpo mobile prima e dopo l’impatto e, conseguentemente, poter quantificare mediante tale confronto l’entità della deformazione plastica del materiale impattato. Ecco dimostrato come la misurazione statica della deformazione indotta da un penetratore applicato con forza nota e la misurazione dinamica della perdita di velocità di un corpo mobile mandato ad impattare con velocità nota forniscano alla fine una informazione relativa allo stesso effetto fisico, ossia la deformazione plastica del materiale sotto osservazione.

 

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