Protagonisti / Marco Simonazzi, l’orgoglio di essere stampista

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Alla I.S.A Vascelli di Collecchio la parola d’ordine è versatilità. Specializzata nella deformazione a freddo della lamiera, l’azienda fornisce da sempre soprattutto progettazione e costruzione di stampi. Da qualche tempo però trova in altre attività correlate, come lo stampaggio, la saldatura e l’assemblaggio.

 

In  I.S.A. Vascelli conosciamo Marco Simonazzi, 55 anni, titolare dell’azienda con altri soci e figura tecnica nell’ambito della compagine societaria. L’accoglienza è quella di una persona per natura riservata e dubbiosa:  il timore è di non avere una grande storia da raccontare. Decidiamo di incalzarlo senza troppi scrupoli.

Si ritiene stampista di prima o di seconda generazione, signor Simonazzi?

Di seconda, certamente. Sono stato allievo di un bravo stampista più anziano che ha fatto da pioniere e per me, che non sono figlio di stampisti, come spesso accade fra i miei colleghi, ha fatto da padre nell’assecondare la mia passione per la meccanica. A mio padre devo il mio indirizzo scolastico. In una città come Collecchio, dove la maggior parte dei miei coetanei  sceglieva di entrare alla Parmalat, una strada quasi obbligata, lui mi spingeva a seguire le mie inclinazioni e a iscrivermi all’istituto tecnico per disegnatori meccanici di Parma.

È pentito di quella scelta?

Assolutamente no, le soddisfazioni sono state tante e, anche se oggi lo sono di meno, ci sono ancora.  Certo, ho scelto la strada più difficile. Ancora adesso non so cosa siano “le otto ore” né mi fermo a calcolare la mia pensione. Sinceramente, non riesco a farci conto.

Come arriva in I.S.A. Vascelli?

Per la via più banale, l’ufficio di collocamento. Poi, però, di banale non ricordo più niente a cominciare dagli insegnamenti dell’allora titolare “Signor Vascelli”, che mi ha insegnato il mestiere trasferendomi la sua esperienza di stampista maturata in Francia. Ho iniziato come semplice disegnatore e mi sono tanto appassionato a questo lavoro che non l’ho più lasciato… e non intendo lasciarlo, naturalmente, tanto meno ora che da 22 anni sono titolare dell’azienda con altri soci, di cui una, la figlia del fondatore. Con noi ci sono 15 dipendenti, ma ne abbiamo avuti fino a 22 nel 2008, l’anno del picco prima della grande crisi.

Già, la crisi.  Lei come la racconterebbe a un ipotetico nipote.  Stavamo bene, lavoravamo quando…

Quando, all’improvviso…. Perché è stato come un fulmine a ciel sereno. Di punto in bianco si sono azzerati gli ordini. Lavori che dovevano essere fatti sono stati sospesi per non essere mai più ripresi. La causa? Me lo sono chiesto tante volte e ho una sola risposta, forse fin troppo ovvia: la globalizzazione. Sempre più numerosi, i nostri clienti, per lo più del settore automotive, hanno cominciato a portare il lavoro all’estero. Poi … sono finiti gli investimenti… e, come tutti sappiamo, gli stampi sono un investimento. Negli ultimi quattro anni è andata via la produzione e lo dimostra il fatto che abbiamo smesso di fare addirittura i preventivi. Questo significa che siamo esclusi dalla filiera a vantaggio di fornitori che sappiamo in Cina, India, Romania e ora anche nell’ex Jugoslavia.

 

Per noi qui tutto questo è storia risaputa e mi sembra che non si vedano all’orizzonte segnali di cambiamento.

No, non è vero. Qualcosa si sta muovendo. Per esempio, qui in zona alcuni miei diretti concorrenti stanno assistendo a un ritorno dei clienti tedeschi e questo mi rincuora perché significa che, una volta tentata la strada della riduzione dei costi di produzione, oggi ritorna a prevalere la qualità.

Paga davvero ancora la qualità? Non si dice anche qui che i cinesi sono diventati bravi?

Sì, ormai lo riconoscono in molti, però su voci come il controllo dei materiali e delle lavorazioni, la sicurezza del prodotto e la conformità con le normative europee, certi Paesi non sono ancora in grado di rassicurare i committenti. Non dimentichiamo poi che la Cina non è vicina e i tempi di consegna, che si aggirano fra i due/tre mesi, possono rappresentare un problema insormontabile, per non parlare delle condizioni di arrivo dei materiali più delicati. Così oggi a noi qui capita di costruire stampi che vanno a stampatori italiani (quando non siamo addirittura noi stessi a stampare) per prodotti destinati a committenti tedeschi.

Sono solo tedeschi i committenti qui in zona?

Per quanto ne so io, sì. Va detto che l’unico settore che ancora fa lavorare noi stampisti, quello dove si investe ancora, è l’automotive dove i tedeschi  la fanno da padrone e hanno buona memoria della qualità della meccanica italiana.

Anche voi lavorate per i tedeschi?

Noi siamo fra i pochi che, nel settore dell’automotive, ancora lavorano per un committente italiano: abbiamo la fortuna di ricevere ordini da Ferrari/Maserati, un’azienda di prodotti di lusso dove ancora la crisi non si è fatta sentire. Anche noi però la crisi l’abbiamo sentita, fortunatamente ne parlo al passato perché dal 2010 stiamo osservando una leggera ripresa degli ordini.

La ripresa degli ordini interessa solo l’attrezzeria?

No, molta della ripresa riguarda il nostro settore dello stampaggio, che abbiamo aperto in momenti in cui sembrava di non poter più produrre stampi come in passato. Attualmente viviamo più di stampaggio e lavorazioni che di stampi. Oggi vivere di stampi… è dura. I margini che siamo arrivati ad avere negli ultimi anni non ci avrebbero consentito di sopravvivere. Con lo stampaggio, invece, riusciamo ad avere un polmone che ci dà da respirare nei tempi morti dell’attrezzeria. Logicamente i costi sono diversi, ma così facendo riusciamo a mantenere la manodopera più qualificata.

Il ricorso allo stampaggio da parte delle aziende italiane appare piuttosto incomprensibile. Non eravamo i primi per il livello della nostra creatività? Come mai oggi sopravviviamo con un’attività ripetitiva e non così qualificata come quella dell’attrezzeria, dove i soliti cinesi sarebbero più competitivi? 

Noi stampiamo perché abbiamo gli stampi in casa e non vale sempre la pena muoverli verso l’estero, soprattutto per motivi logistici. Per lo più si tratta di ragioni di vicinanza. I clienti che oggi ci danno lavoro sono quasi tutti dentro i confini dell’Emilia Romagna, in non più di tre provincie. Quasi tutte poi hanno una produzione di piccoli numeri che non giustificherebbe il ricorso a stampatori lontani.

Quando considera lo stato attuale degli stampisti, si chiede mai quali errori siano stati commessi?

Sì e non solo pensando agli stampisti. Quando  me lo chiedo, ho una sola risposta: non abbiamo pensato mai al futuro del nostro mercato interno. Portando il lavoro all’estero non ci siamo chiesti come saremmo sopravvissuti al nostro impoverimento generale. Ci siamo lasciati abbagliare dai grandi guadagni che le lavorazioni all’estero potevano produrre. Oggi il nostro potere d’acquisto è in caduta libera e ci costringe a spendere sempre di meno rincorrendo prodotti di qualità sempre inferiore e quindi sempre più spesso costruiti all’estero. E’ un gatto che si morde la coda.

Si dice che il grosso problema di oggi sia la restrizione del credito alle imprese. Crede che se le banche fossero più generose voi potreste realizzare gli investimenti che vi consentirebbero di battere la concorrenza estera sul piano dell’innovazione e dell’eccellenza?

Noi stampisti dipendiamo dal benessere dei nostri committenti e oggi osserviamo come ai nostri committenti manchi la volontà di investire nel nuovo. Secondo noi, sono i grandi gruppi a dover essere aiutati a ripartire. Solo così, nella ricaduta, noi stampisti ritroveremmo le commesse che potrebbero farci ripartire. Crisi o non crisi, noi stampisti non possiamo rimproverarci di non aver perseguito l’eccellenza o l’innovazione. Per nostra stessa natura,  noi lavoriamo sul nuovo e produciamo attrezzi e stampi della migliore qualità. L’unica scelta che negli ultimi tempi non abbiamo fatto per mancanza di ordini è stata quella di non acquistare nuove macchine più performanti, con cui avremmo potuto migliorare la nostra produttività e soprattutto la qualità del lavoro, ma per acquistare macchine ci vogliono capitali e i capitali si investono con previsioni di lavoro. Per noi gli investimenti devono andare ai costruttori di beni seriamente intenzionati a un vero rinnovo di gamma.

Quando i committenti hanno cominciato a non premere più alla porta degli stampisti, molti hanno deciso di andarli a cercare. Così hanno imparato parole come promozione e marketing, hanno scelto di rafforzare la presenza nelle fiere e nelle manifestazioni di settore o ancora hanno fatto ricorso a responsabili commerciali, spesso con esperienza verso l’estero. Voi?

Già in tempi non sospetti, nei primi anni 2000, avevamo un rappresentante esterno che ci sottoponeva preventivi sia italiani che esteri, distribuivamo depliant e partecipavamo intensamente a fiere di settore. Devo però riconoscere di non aver mai avuto grandi risultati. Probabilmente eravamo troppo piccoli. Per entrare nell’ingranaggio con la promozione in proprio e per poter contattare aziende di grandi dimensioni, bisogna essere più grandi, avere non meno di 50 dipendenti. Poi devo riconoscere che nel 2000 era già troppo tardi per crescere: molte grandi aziende chiudevano sul nostro territorio per riaprire altrove o addirittura per non riaprire più.

Quindi Lei si rammarica di non essere cresciuto quando le cose andavano bene?

Noi siamo cresciuti, ma forse non abbastanza per battere la concorrenza di stampisti più grandi acquisendo quei grandi clienti che ci avrebbero permesso di fare un salto di qualità e di rafforzarci in previsione di tempi meno felici. Si sa che le grandi aziende sono più forti rispetto all’estero con cui possono compensare le difficoltà che oggi incontriamo sul mercato interno.

Gli stampisti più anziani dicono che di crisi ne hanno viste tante e che alla fine ne sono sempre venuti fuori. Secondo Lei questa è una crisi da cui si esce come da tutte le altre?

Secondo me questa crisi è diversa. In quelle che abbiamo affrontato, noi abbiamo sempre lavorato, anzi in certe crisi noi abbiamo lavorato persino di più: si faceva restyling, si studiavano prodotti nuovi. Oggi invece nessuno ha più voglia di investire, non c’è ottimismo perché nessuno può negare che il mercato sia fermo. Se si esclude il settore dell’auto o, meglio, quello delle automobili di grossa cilindrata, tutto il resto è fermo. Non sono io a dirlo, ma oggi funziona solo il mercato del lusso e su quello non può vivere un’intera nazione.

Il proverbio recita “L’unione fa la forza”. Vale anche per gli stampisti?

Noi, questo proverbio l’abbiamo fatto nostro quando, associandoci in tre, abbiamo rilevato l’azienda Vascelli e nell’operazione abbiamo raddoppiato il numero degli addetti. Successivamente abbiamo provato ad aggregarci con altri stampisti. Non ci siamo riusciti, ma questa è un’altra cosa. Hanno influito problemi di natura economica e personali. La volontà di unirci con altri concorrenti non è mai mancata però ci siamo sempre scontrati con la diffidenza, una vera malattia della nostra categoria. Perché a pensarci bene, lavorando insieme potremmo permetterci macchine più performanti e più impegnate, anziché avere tutti la stessa macchina poco utilizzata, potremmo consegnare prima e fatturare prima, in altri termini potremmo ottenere immediatamente un’ottimizzazione delle macchine e del personale. Purtroppo è stato sempre difficile trovare persone davvero convinte come me della bontà di queste scelte. Oggi, proporre una sinergia è quasi impossibile. Ho la sensazione che abbiamo tutti …perso il tram.

Per non cadere nella depressione, proviamo a fare un sogno. Immagini di avere per la mani la famosa lampada di Aladino. Quale desiderio le chiederebbe di realizzare?

In questo momento vorrei un bel portafoglio clienti… che pagano… ma forse ho chiesto troppo..vero?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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