La torta

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La grande torta della produzione globale è suddivisa in fette di dimensioni diverse, che variano dinamicamente nel tempo, in ragione delle evoluzioni (o stasi se non involuzioni) dei diversi Paesi. All’inizio di ogni anno parte la corsa all’accaparramento delle fette più grandi e i Paesi più affamati sono sempre in prima fila. Seguono via via quelli un po’ sazi, i molto sazi e infine i pigri che hanno accumulato grassi di sopravvivenza. La disponibilità di fette diminuisce rapidamente e le dimensioni piccolissime, che toccano ai penultimi, sono comunque sufficienti per campare qualche anno. Ai pigri, grassi, non resta nulla. Tutto appare fisiologico e naturale. Ma nel tempo ci si accorge di un problema: non si sa mai bene quando termini la fame degli affamati. E lasciali mangiare oggi, domani e dopodomani, finisce che lo stomaco degli altri, in successione temporale secondo proprio stato, cominci a gorgogliare per il vuoto, cosa che notoriamente porta anche all’indebolimento fisico. A questo punto i Paesi indeboliti si chiedono come fare per recuperare qualche buona fetta della torta della produzione mondiale e tutti, dottori, scienziati, politici, burocrati e perfino i fanfaroni, cominciano a intessere dotte disquisizioni su come recuperare numeri e dimensioni di fette che possano effettivamente agire da ricostituente.

La rappresentazione figurativa è ovviamente provocatoria, ma serve per riflettere realisticamente che il nostro è un Paese indebolito e che è entrato in un tunnel di immobilismo che geneticamente e storicamente non gli appartiene. Né consolano i dati di una ripresa in corso basata su valori: zero, qualcosa. Così come è assurdo pensare che sia sufficiente un discreto export per validare positivamente la salute del nostro Paese. Certo, molto dipende dal nostro Stato. Molto dipende da noi. Forse non disponiamo dei migliori statisti, ma non si comprende nemmeno come mai non siamo stati in grado di capire che il mondo stava progressivamente – e inevitabilmente – cambiando e che avremmo dovuto prendere provvedimenti. La buona imprenditoria, per esempio, purtroppo non lo Stato elefantiaco, solitamente prevede e anticipa i fenomeni. Si ha un bel dire che siamo individualisti e che preferiamo “giocare” da soli, quando è noto che i Paesi più forti sono abituati a fare gioco di squadra. Siamo sempre convinti che cento piccole aziende su territori tradizionalmente ristretti e che dispongono, ognuna, di un paio di centri di lavoro, di un tornio, di una fresatrice, di una attrezzatura metrologica, possano essere in grado di agguantare, ognuna, una fetta di produzione sufficiente a sfamarsi? Una corsa tra poveri, bravi ma poveri, che si devono accontentare di dividere e raccogliere piccole fettine, se non briciole!  Capacità di innovazione e creatività sono beni di valore incommensurabile, fanno parte del nostro Dna, ma oggi devono riguardare l’intera strategia aziendale, non soltanto limitati aspetti di essa. Del resto anche se volessimo soltanto considerare la nostra capacità di innovazione di prodotto e di processo – peraltro di per sé non più sufficiente- ci accorgeremmo che il nostro Paese si colloca nei confronti dei principali Paesi europei soltanto al  15° posto (classifica Innovation Union Scoreboard 2011).  Stanno facendo uno sforzo globale alcune aziende decentralizzata che stanno rientrando e che, anche grazie all’automazione, stanno trovando le vie di una concorrenzialità italiana. Si sta dimostrando sempre più che fuori non sempre è bello. E’ necessario pensare diverso ed è il momento di riprendere in mano le redini e frustare il cavallo del nostro Paese. Con governi deboli e sovente inetti, dobbiamo dimostrare di essere forti e coraggiosi, anche per ridare speranza, dignità e futuro ai tanti nostri giovani volenterosi che desiderano mettersi in gioco al nostro fianco.

di Michele Rossi

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