Oggi tutti cercano storie; storie da raccontare, da scrivere, da sfruttare, da adattare alle proprie necessità, alle circostanze. Questa voglia di sventolare senza complessi smoderatezze festaiole, intemperanze politiche, sfrenatezze tributarie e quant’altro rimanda ai tratti fondamentali di un marketing politico, studiato apposta per ogni fetta di pubblico: la vita come entusiasmo, il lavoro come un diritto, la globalizzazione come metafora di vita, il tutto personalizzato.
Prendiamo l’Unione Europea, grande divoratrice di storie. I giornali, le riviste, la radio, la televisione masticano righe e ore di telenovelas sulla caduta delle barriere doganali, di sceneggiati commerciali, di accordi d’avventura, d’impegni… Eppure nel nostro travagliato paese è difficile imbattersi in una storia di politica industriale vera; una storia che non obbedisca alle solite regole dei finanziamenti che lo Stato non ha dato e che avrebbe dovuto dare, alle solite formule assistenziali. Oggi, convivono storie scottanti e preziose e occorre davvero tanta abilità per tirar fuori il segreto del successo delle imprese: le piccole devono impegnarsi con tutte le loro forze per risolvere i problemi posti dallo sviluppo, in primo luogo affrontandoli al loro livello, che è quello operativo. La politica industriale dovrebbe – ma non lo è – corrispondere a più ampi obiettivi d’interesse generale, che spetta al governo individuare e perseguire con adeguati mezzi: per esempio, la riduzione delle tasse e del costo del lavoro.
Vedo molte motivazioni in questo appello: la nostra industria si presenta all’Unione Europea e al mercato globale con punti di forza e di debolezza; tra i punti di forza ci sono la maggior vivacità del nostro ceto imprenditoriale, la voglia di intraprendere; tra i punti di debolezza c’è l’aspetto dimensionale, al quale si accompagna inevitabilmente un certo ritardo nell’acquisizione di soluzioni tecnologiche che implicano risorse e livelli organizzativi.
Il passato e il presente della storia dell’industria italiana sono da dimenticare. Guardandola con cinismo, la politica industriale assistenziale rappresenta un unicum nel campo della retroguardia e quindi del fallimento; agli imprenditori non piace la parola assistenza; la trovano avvilente. Però credono che la politica industriale dello Stato debba essere attraente, più o meno come avviene per uno spettacolo. Da un lato ciò significa favorire, anche attraverso un’opportuna normativa fiscale (sigh!), tutte le operazioni che possono portare non solo a salvaguardare la competitività delle imprese, ma anche e soprattutto a incrementarla. Dall’altro lato è necessario incoraggiare le imprese minori a intraprendere comportamenti competitivi di più alto livello, possibili nell’ambito di strategie adeguatamente specializzate. Questo punto, a ben vedere, riguarda tutto il progetto del mercato unico europeo. Se non riusciremo noi italiani a pretendere un arredo statale a disposizione di un’industria sana, forte ed europea, cioè un sistema di indicazioni e di servizi efficiente, non saremo più fra i primi esportatori e produttori nell’ambito dell’Unione Europea.
L’Italia è una nazione viva, ma a rischio, abitata da una miriade di piccole imprese prive di specifici strumenti di incentivo per la ricerca e sviluppo. Gli interlocutori appartenenti alla sfera dei poteri legislativi e di Governo devono avere il coraggio di decidere. Altrimenti le piccole industrie saranno le prime vittime dell'”ambiente europeo“.
di Enzo Guaglione