L’inevitabilità dei corsi e ricorsi storici è nota. La maggior parte degli studiosi utilizza questo concetto per prospezioni e divinazioni su quanto capiterà, in ogni campo. Chi pratica la storia, sovente da essa attinge anche per pianificare il proprio futuro. Si può sbagliare sul quando avverranno alcuni fenomeni, ma quasi mai sul se. Gli ultimi anni sono stati però caratterizzati da una varianza di fenomeni a macchia di leopardo e con dinamicità inaspettate. Giocare sul quando è diventato ancora più azzardato. La globalizzazione ha posto nuovi e inediti interrogativi sulle modalità di sviluppo. Alcuni Stati danno indirizzi, altri no. Politica industriale o politica per le industrie? Le scelte sono spesso contraddittorie. I governi prendono cantonate. Società manifatturiera oppure di servizi? Oppure un mix di queste? Favorevoli e contrari si cimentano in disquisizioni.
Di recente, sul nostro scenario, in modo atipico, è comparso anche il terzo settore. Non mi è ancora chiaro come questo possa contribuire al PIL. Certo, la visibilità è limitata, mentre uno sviluppo pianificato e non isterico ha bisogno di certezze a medio lungo termine. Nella storia vicina, ricordo l’esaltazione della società di servizi, mentre la produzione veniva delegata a terzi. Occidente e Oriente contrapposti. Ricordo con i brividi le spericolate speculazioni finanziarie che hanno scosso dalle fondamenta il mondo e che stiamo scontando tutt’ora. Speculazioni senza corpo, un modello aleatorio, distorto, diseducativo. Pratica ipocritamente esecrata, nella realtà ancora esercitata. Ricordo con i brividi il termine deindustrializzazione. Dovrebbe essere bandito dal dizionario. Favorirla, o soltanto non ostacolarla, dovrebbe essere considerato un crimine. Ma le cose stanno cambiando. La consapevolezza della necessità di ripristinare solidi concetti di modelli basati sul fare sta attraversando molti paesi. Allora sì, che anche i servizi possono prendere corpo e partecipare a un concreto sviluppo. Sembra così lapalissiano da fare sorgere veramente il dubbio dell’esistenza in qualche parte del mondo di equivoche figure di burattinai. Il manifatturiero sta riprendendo fiducia e vigore. Le sfide che il fare pone oggi sono più complesse ma anche più stimolanti, perché mettono in gioco tutti i fattori di cui dispone una società civile ed evoluta.
L’uomo manifatturiero è diverso da nazione a nazione in quanto i relativi imprinting sono diversi. Quello italiano dispone probabilmente del migliore imprinting complessivo e lo pone in pole position per affrontare le nuove sfide. Il nostro tipico imprenditore, pur operando nella sua atavica solitudine, quando è sorretto dalla fiducia, non sta dietro a nessuno. Grande lavoratore, elabora e gestisce strategie con tempestività ed efficacia. Tecnicamente pignolo, è capace di produrre qualità ai massimi livelli. Le sue maestranze sono le migliori del mondo. Le più adatte a comprendere e adattarsi flessibilmente alle nuove esigenze di strategie aziendali e a utilizzare con intelligenza ed efficacia i recenti modelli organizzativi e le più innovative tecnologie di produzione. Stiamo uscendo da un periodo delicato, dal punto di vista psicologico e da quello fattuale, ma la ripresa di fiducia è palpabile in ogni settore produttivo. Ognuno di noi può diventare protagonista della nostra ripresa economica. Ci dobbiamo credere: la mediocrità non fa parte del nostro imprinting.
di Michele Rossi