Il grande gioco…e la frenata della produzione industriale

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Nel XIX secolo, si svolse una vera e propria guerra di intelligence fra le montagne dell’Afghanistan e dell’attuale Pakistan. Quei luoghi impervi, zone di passaggio fra India, Medio Oriente e Russia facevano gola a molte potenze, in primis la Russia, che era confinante, e la Gran Bretagna, potenza colonizzatrice. Così, le tribù afghane furono di volta in volta mobilitate e sobillate dagli uni contro gli altri. Questa rivalità geopolitica, in mezzo alla quale si trovarono gli afghani, fu chiamata appunto “Il grande gioco”.

Oggi nel “grande gioco” ci siamo noi

Oggi, la storia sembra ripetersi, ma, a essere coinvolti in un “grande gioco” non sono più i poveri afghani, ma noi europei. Sì, perché tutti gli indicatori segnalano una brusca frenata della produzione industriale tedesca, seguita, ovviamente, da tutte le altre economie del Vecchio Continente. In particolare, l’Italia, che, nel settore metalmeccanico e non solo, vive un vero e proprio rapporto simbiotico con la Germania. Da sempre, le grandi industrie tedesche contano sulle nostre realtà produttive. I tedeschi cercano sul mercato italiano fornitori di pezzi meccanici e componenti.

Il vero sovranismo: quello dell’incertezza

Il dibattito fra gli analisti nostrani è in corso: molti individuano la causa della frenata nell’incertezza politica di casa nostra negli ultimi mesi, in particolare sugli incentivi per Industria 4.0.
Ma il problema è che l’incertezza politica non domina solo in Italia, ma in tutto il mondo. E veniamo al “grande gioco” in cui l’Europa si trova coinvolta: con le sanzioni introdotte da Donald Trump nei confronti della Cina, la domanda interna cinese si è logicamente raffreddata, a causa dell’aumento dei prezzi di molti beni di consumo importati. Questo non ha potuto che destare molta preoccupazione fra gli industriali tedeschi, che da sempre hanno puntato sull’export come loro dimensione industriale.

Addirittura, ancora pochi anni fa, in pieno clima di caccia ai PIIGS, c’era chi chiedeva ai tedeschi, fautori del rigore con il loro ministro Wolfgang Schauble, dove avrebbero venduto i loro beni industriali, le loro auto, dopo aver messo in ginocchio la Grecia, e magari anche l’Italia e la Spagna. Nessun problema, c’era la Cina, e la sua enorme capacità di assorbire prodotti, con un mercato di più di un miliardo di consumatori, fra l’altro con una derivata della curva di crescita ben più elevata di quella dei paesi europei.

Una ricetta di sviluppo da rivedere

Oggi però, il meccanismo sembra essersi rotto: i dazi americani sembrano aver colpito non solo e non tanto la Cina, ma chi con la Cina faceva tanti affari, la Germania appunto. E Trump non sembra particolarmente dispiaciuto per questo.
Forse, quanto sta accadendo dovrebbe servire di lezione a chi, in questi anni, ha scommesso tutto su un unico cavallo: quello della crescita del surplus commerciale con l’estero. Alla faccia di qualsiasi sana regola di diversificazione che dovrebbe essere alla base di qualsiasi strategia di sviluppo degli investimenti.

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