Imprese in cerca di anticorpi

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Nella meccanica il lavoro prosegue e gli ordini sono regolari ma ci si interroga sull’avvenire.

Lino Pastore, responsabile commerciale di Giurgola Stampi

Paradossalmente – e non è certo questione di cinismo – ci sono aziende per le quali il clima di emergenza innescato dalla rapida diffusione globale del coronavirus Covid-19 avrebbe persino potuto rappresentare un’opportunità. E se non la si è colta è anche perché il gioco non sarebbe forse valso la candela, dato che le linee giravano a mille per gestire le commesse abituali e già pianificate. «Le esperienze maturate con la SARS nell’ambito dei tappi per i flaconi di disinfettanti potrebbero essere messe a frutto adesso per rispondere alle richieste di chiusure standard per gel antibatterici in arrivo dall’estero. Ma il lavoro per ora continua intensamente; non aggiungeremo altre commesse». Questo è il parere espresso dal responsabile commerciale della brianzola Giurgola Stampi Lino Pastore. Più che per il business in sé Pastore è preoccupato dell’impatto che il fenomeno potrebbe avere sulle modalità di conduzione delle relazioni commerciali; nonché sul Paese nella sua totalità. «Soffrono», ha osservato, «settori altamente strategici per la Penisola come i trasporti, l’alimentare e il turismo (il 26 febbraio Il Sole 24 Ore calcolava per quest’ultimo una emorragia da 2,7 miliardi per i primi cinque-sei mesi dell’anno; e sulle stesse pagine Coldiretti stimava un calo dell’11,9% delle esportazioni di prodotti italiani in Cina solo nel gennaio 2020, ndr). In un momento in cui si tende giocoforza a limitare gli spostamenti la tecnologia è di grande aiuto per condurre almeno una parte delle trattative via teleconferenza. Dati, analisi, sketch di progetto possono essere condivisi a distanza e questo può aiutarci ad accrescere la familiarità con l’hi-tech. Ma al tempo stesso introduce elementi di freddezza in un rapporto, quello fra cliente e fornitore, che richiede empatia».

Fra reshoring e smart working

Il rischio è quindi che le relazioni diventino troppo impersonali e che l’eccellenza tecnica del made in Italy degli stampi, nella fattispecie, non sia compreso appieno. Senza contare che «il dialogo vis-a-vis è quello che permette ai commerciali di acquisire e sviluppare le competenze più preziose». Senz’altro, è percepibile la volontà di alcuni produttori di ritornare ad acquistare componenti dai fornitori del territorio, tagliando fuori quelle regioni dell’Asia «dove i project manager che seguono le produzioni non vogliono o non possono più recarsi». E l’eccezionalità della situazione fa risaltare tanto le potenzialità di Internet quanto i limiti della connettività italiana, facendo altresì capire che l’automazione è una risorsa importante ma non la panacea. «Il personale di vendita e acquisto», ha proseguito Lino Pastore, «e gli amministrativi possono tutti operare da casa, qualora ve ne fosse la necessità. Non così l’ufficio tecnico con la sua dotazione di workstation che in futuro, pure in un’ottica di telelavoro, potrebbero essere rimpiazzate da strumenti portatili e più maneggevoli. Anche in un territorio di cruciale importanza per la produttività nazionale i collegamenti alla Rete si mostrano nella migliore delle ipotesi perfettibili e la loro instabilità può rappresentare un problema. Venendo poi alla robotica e ai turni non presidiati, per quanto Giurgola Stampi abbia automatizzato una parte rilevante delle sue attività molto tempo prima dell’ondata di Industria 4.0, i giorni di autonomia senza intervento umano diretto potrebbero essere al massimo un paio, realisticamente». Non resta perciò che sperare nella piena salute degli addetti tenendo conto che il costruttore di stampi ha sede a Briosco, dunque ben lontano dalle zone rosse isolate nei primi mesi di quest’anno. Ma ha chiaramente piena visibilità sui mercati globali. «Fra le nazioni con le quali ci interfacciamo», ha detto Pastore, «gli atteggiamenti sono di segno opposto. Da una parte c’è una Germania in stato d’allerta (oltre un centinaio i soggetti positivi, nella prima settimana di marzo, ndr) per le possibili ricadute a carico delle multinazionali negli epicentri del contagio. Dall’altra la Turchia, hub e porta di transito fra Oriente e Occidente dove il sospetto è che si stiano chiudendo un po’ gli occhi ed è complicato avere una percezione reale di quel che sta accadendo».

Il tassello mancante

Secondo il managing director di Iron Sistemi Filippo Bolpagni «L’incertezza è per ora il problema più grave». La sua azienda è specializzata nella lavorazione conto terzi di lamiera per l’arredo, l’elettrotecnica, le piscine, «pur se le paure di fornitori e partner ai margini o all’interno della zona rossa paiono del tutto giustificate. Non si deve certo sottovalutare il fenomeno; ma bisogna evitare che l’Italia intera si fermi». Automazione, anche qui a Ghedi, non fa rima con soluzione. «Siamo fortemente automatizzati», ha spiegato Bolpagni, «ma il presidio da parte dei nostri sessanta addetti resta imprescindibile e un contagio nei reparti rappresenterebbe un autentico disastro. In più, noi subfornitori siamo chiamati a investire continuamente in innovazione per confermare la nostra competitività. Lo abbiamo fatto nell’ultimo biennio; lo stiamo facendo ancora ma uno stop dell’indotto renderebbe tutto più arduo». Né esistono eventi precedenti ai quali rifarsi per replicare esperienze e forme di reazione analoghe. Nonostante le difficoltà della bolla-Lehman – «chiusure, insoluti, concordati, perdite ingenti» – dopo il 2008 gli stanziamenti non avevano subito interruzioni. Questa volta i pareri contraddittori degli stessi esperti e i continui cambi di rotta delle istituzioni rendono il quadro ancor più difficile da interpretare. «Che qualcuno abbandoni i paradisi della manifattura a basso costo per tornare a rifornirsi sul territorio», ha riflettuto Bolpagni, «è possibile. Ma di concreto non vedo nulla anche se dalla situazione attuale si potrebbe trarre un insegnamento prezioso. Cioè che affidare in toto o quasi all’estero le produzioni e il know-how non è, sul medio-lungo periodo una strategia vincente». Serpeggia «la preoccupazione fra gli imprenditori che acquistano componenti in Cina perché non si hanno notizie precise circa la ripresa delle attività nella Repubblica Popolare». E al contempo ricostruire reti di approvvigionamento affidabili in Patria è facile a dirsi; molto meno da realizzare. Per il secondo trimestre dell’anno la visibilità di sui fatturati è scarsa se non nulla mentre le stesse associazioni di categoria, a detta del managing director di Iron Sistemi, non stanno comunicando a sufficienza né sufficientemente bene. «Fra i dipendenti, per quanto alcuni siano più intimoriti di altri, comincia a radicarsi un atteggiamento di reciproca diffidenza. Gli imprenditori nostri vicini temono una brusca frenata dell’economia nazionale nel suo complesso. Anche perché oggi la Penisola emerge come il nemico pubblico mondiale numero uno mentre si sa che il virus è anche altrove e altrove stanno i misteri. Anche un fermo d’attività temporaneo può esser per molti fatale. Si sentono in questi giorni ipotesi sui finanziamenti che il governo vorrebbe stanziare. A mio avviso sono insufficienti per quantità e qualità. È giusto supportare i lavoratori con la cassa integrazione e aiuti alle famiglie, ma senza trascurare le imprese che hanno investito fortemente negli ultimi anni».

Nessun piano alternativo, ma molta attenzione

La bergamasca AR Ratti Srl è specializzata nella lavorazione di componenti meccanici di precisione, torniti, fresati in acciaio, alluminio e ghisa per vari settori applicativi. «Siamo abituati come terzisti a godere di visibilità a brevissimo termine», ha detto allora uno dei titolari, Alessandro Ratti, «e visto che alcune delle imprese abituate a rifornirsi in Cina hanno iniziato a guardarsi di nuovo attorno nella nostra provincia e non solo, abbiamo cominciato a comprendere l’impatto diretto sulla nostra economia cercando anche di cogliere nuove opportunità. Siamo molto attenti e valutiamo ogni giorno le informazioni e i dati pubblicati, l’evoluzione della situazione; e abbiamo attuato una serie di misure per garantire la sicurezza di dipendenti e clienti e delle persone che interagiscono con l’azienda. Al contempo assicuriamo la normale operatività. Non pensiamo a un ‘piano B’ perché a oggi non esistono scenari di riferimento ragionevolmente certi. Abbiamo contatti indiretti con la Germania ma i clienti che hanno a che fare con l’estero sono cauti, più che timorosi, preoccupati forse per la supply chain».

Quel che del coronavirus inquieta è la sua novità e contagiosità, e solo relativamente la mortalità che sembra bassa sebbene vengano accolte con favore le misure di mitigazione e contenimento, per evitare che la trasmissione dell’infezione nei reparti potesse risolversi in un blocco totale della produttività. «Non è da escludere una certa sottovalutazione del pericolo», ha detto Ratti, «e di questo potrebbero risentire sia l’organizzazione aziendale sia quella sociale. Una chiusura completa delle attività è francamente impensabile e una certa permeabilità permarrà sempre, ma limitare le possibilità di contatto è ragionevole, è un intervento drastico cui aderiscono però tutti gli addetti. Le prossime settimane sono decisive per giudicare l’esito delle misure», ha detto Ratti.

La Cina (non) è vicina

La nostra fonte in Cina si trova a Qingdao nella provincia dello Shandong, distante più di 800 chilometri da Wuhan; lavora per una multinazionale italiana della componentistica meccanica ed elettronica e degli stampi e ha chiesto esplicitamente di restare anonima. Questo è quanto ci ha comunicato con una e-mail datata al 4 marzo scorso. «In conseguenza della diffusione del coronavirus Covid-19 siamo stati obbligati ad una chiusura prolungata di venti giorni circa, ma di fatto alla riapertura dell’11 febbraio in azienda potevano accedere solo le persone residenti nella provincia e le altre provenienti da fuori hanno dovuto osservare una quarantena di due settimane nella loro abitazione. Al loro rientro sono stati costretti in casa per altre due settimane. Oggi l’organico è al completo, tranne per cinque persone rientrare dalla provincia di Hubei, ancora in quarantena e destinate a sottoporsi a un ulteriore, definitivo accertamento. Sono fiducioso in un ritorno a pieni ranghi per l’inizio di aprile. I ritmi produttivi hanno subito un drastico calo, dovuto sia alla chiusura forzata sia alle norme di sicurezza imposte alla riapertura. Oggi il personale è molto più attento a seguire le norme di sicurezza che non a ricuperare i ritardi accumulati. Per quest’anno temo una riduzione del fatturato del 10% secondo l’attuale andamento. Ma credo anche in una netta ripresa da luglio in poi. In agosto la Cina lavora e il virus qui sarà ormai storia, mentre altri Paesi staranno ancora lottando. Per forza di cose molti lavori saranno nuovamente allocati in Cina. Non mi stupirei perciò di arrivare a fine anno con un completo recupero di quanto perduto in questi primi mesi dell’anno. Senza dubbio non solo i cinesi ma tutti gli Stati asiatici sono stupiti dal modo in cui i paesi Europei affrontano l’emergenza: l’epidemia che viene considerata una influenza, le persone che lottano per la loro libertà di non indossare maschere o restrizioni mentre il numero dei contagiati cresce. Sono italiano ma mi sento fortunato per l’essere rimasto bloccato qui le restrizioni e i controlli sono pesanti, però mi sento al sicuro. A Qingdao le persone hanno paura degli stranieri visti come portatori di infezione e il governo di Pechino impone la quarantena agli arrivi dall’estero. I numeri parlano da soli, e dicono che le misure prese in Occidente per contrastare la diffusione del virus sono insufficienti, ogni giorno i contagiati aumentano in misura esponenziale. Risolvere il problema senza dialogare con la Cina, con un atteggiamento di chiusura, è a mio avviso molto difficile, ma dalla Cina gli aiuti si dirigono verso nazioni storicamente invise agli Stati Uniti come l’Iran. Cosa significa tutto questo? Che siamo in guerra, pur se il conflitto viene combattuto con armi non convenzionali. Non ritengo plausibile la corsa a fornitori alternativi a quelli cinesi perché la reazione di Pechino è stata tanto tempestiva da permettere un rapido rilancio delle produzioni, con l’eccezione della zona blindata di Wuhan. Il governo cinese ha fatto una scelta precisa: sacrificare Wuhan per salvaguardare l’economia del paese. Giusta o sbagliata che possa essere si è trattato di una soluzione che ha consentito la ripartenza almeno parziale dell’economia». A margine: quest’ultima osservazione mi è tornata prepotentemente in mente leggendo questo post firmato da Selvaggia Lucarelli: facebook.com/selvaggia.lucarelli/posts/10157015195490983

CALL OUT

«Se l’emergenza dovesse proseguire, metterebbe in crisi non solo il nostro ma credo tutti – tutti – i comparti produttivi e dei servizi del paese. Le aziende presentatesi più deboli all’inizio della pandemia, perché ancora toccate dalla crisi dell’auto, potrebbero rischiare la chiusura o l’assorbimento da parte di competitor.

Chi invece ha continuato in questi anni ad aggiornarsi non solo tecnologicamente, ma anche strategicamente, differenziando sia le aree di competenza sia quelle geografiche, potrà superare, pur se non indenne, un periodo che oltre al virus porta con sé l’incognita di come cambieranno i rapporti tra Stati e persone».

Lino Pastore, responsabile commerciale, Giurgola Stampi

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