Il Codice della Crisi

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Con il D.L. Liquidità sono state varate interessanti misure per disciplinare il fallimento e il concordato preventivo, mentre slitta (di un anno e quindici giorni) l’entrata in vigore del nuovo Codice della Crisi.

Il D.L. nr. 23 del 2020, noto come Decreto Liquidità, è probabilmente lo strumento normativo che rimarrà nella storia economica dell’Italia perché, suo malgrado, ha dovuto dare un assetto allo scenario imprenditoriale, provando a tenere fermo il timone di una scialuppa alla deriva, in una Italia scossa da un’inaspettata tempesta. Tra le varie materie regolamentate, l’articolo 5 del D.L. va a modificare il primo comma dell’articolo 389 D. Lgs 12 gennaio 2019, n. 14, mentre lascia inalterato il secondo comma. Di cosa parliamo? Il suddetto decreto legislativo altro non è che il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, e l’articolo 389 regola la sua entrata in vigore.

Come abbiamo già scritto, in questa sede, nel mese di febbraio, il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza avrebbe operato a pieno regime il prossimo 15 agosto. Con il D.L. Liquidità il legislatore ha stabilito il differimento al 1° settembre 2021 (modifica comma 1), mentre il secondo comma non è stato toccato e quindi e rimasta immutata l’entrata in vigore di alcune disposizioni, come avvenuto lo scorso 16 marzo. In particolare, sono già entrati in vigore i principi regolatori afferenti all’Albo degli incaricati della gestione e del controllo nelle procedure, alla Disciplina dei procedimenti, alle disposizioni di riforma del Codice Civile (assetti organizzativi societari, modifiche alla governance delle S.r.l., responsabilità degli amministratori, nomina degli organi di controllo ecc.) e alle garanzie in favore degli acquirenti di immobili da costruire. Invece, a partire dal 1° settembre 2021 si applicheranno le nuove disposizioni generali sui soggetti che partecipano alla regolazione della crisi ed insolvenza, le procedure di allerta e composizione assistita, i nuovi strumenti di regolazione della crisi, le nuove regole sulla liquidazione giudiziale, quelle relative all’insolvenza dei gruppi di imprese, quelle sulla liquidazione coatta amministrativa, nonché le nuove disposizioni penali e del lavoro.

Ripercorriamo velocemente la normativa e proviamo a capire le motivazioni del differimento, che tuttavia non sono state accolte in maniera sempre favorevole da tutte le parti coinvolte.

La disciplina generale

Nel gennaio del 2019 veniva riscritta la Legge Fallimentare, che risaliva al 1942. E così, dopo quasi 80 anni, il legislatore italiano decideva di adeguarsi alle normative di altri paesi UE, armonizzando le discipline con il fine ultimo di evitare le crisi irreversibili, in azienda. Infatti, con la nuova normativa si potrà agire prima di giungere al cosiddetto punto di non ritorno, quando cioè non sarà più possibile sottrarsi al fallimento, più propriamente detto “liquidazione giudiziale”. Lo scopo della riforma, quindi, è rinvenibile in una “diagnosi precoce” dello stato di difficoltà delle imprese, provando a salvaguardare l’imprenditore e lasciando integra la sua “capacità imprenditoriale”, condizione che – con la Legge Fallimentare – viene temporaneamente inibita. Se si riesce a percepire anticipatamente una serie di segnali, si riesce ad evitare una crisi irreversibile, e quindi risulterà più semplice sanare l’impresa. Agendo in tempo, sarà pertanto possibile salvare parecchie aziende, e lasciare intatti numerosi posti di lavoro.

Logicamente, il salvataggio non sarà possibile per tutte: tuttavia, quelle che verseranno in una condizione grave e insanabile potranno uscire dal mercato in maniera rapida e, soprattutto, meno dolorosa (e costosa). La cosa che ci piace sottolineare, in questo contesto, è anche l’aspetto etimologico della nuova disciplina, ovvero l’utilizzo di nuovi termini meno discriminatori: infatti è stato deciso che non si userà più il termine “fallimento”, bensì “liquidazione giudiziale”. E, come già accade da anni in Spagna e in Francia, non ci saranno più aziende fallite o imprenditori falliti, bensì aziende che attraversano periodi di crisi, più o meno lunghi, risolvibili o irreversibili. La sostanza non cambia, certo, ma c’è una accezione meno traumatica.

 

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