Un banco prova per organi di trasmissione con freno reostatico

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Per poter valutare le prestazioni e la resistenza di componenti e dispositivi per le trasmissioni meccaniche è indispensabile disporre di banchi prova che consentano di sollecitarli riproducendo al meglio le reali condizioni di funzionamento. Esistono diversi tipi di banchi prova: in questo articolo ne verrà presentato uno a dissipazione di potenza, il cui carico è applicato mediante un freno reostatico.

I banchi prova sono strumenti fondamentali per caratterizzare e comprendere appieno il funzionamento di componenti o sistemi maccamici (dal singolo componente a sistemi più complessi come trasmissioni intere, motori), permettendo infatti di testarli a diversi carichi e regimi di velocità, simulando in questo modo diverse condizioni di carico.

Essenzialmente un banco prova è caratterizzato da un motore che applica la potenza all’oggetto da provare, che a sua volta è collegato ad un dispositivo in grado di applicare il carico al componente in prova (Figura 1). Tale dispositivo è sostanzialmente un freno (freno dinamometrico), opportunamente controllato, in grado di applicare una coppia resistente modulabile in modo da riprodurre le condizioni di funzionamento a cui il componente in prova deve essere sottoposto. Questo consente di rilevare e misurare precisamente la potenza meccanica emessa dal motore in questione. Questi modelli sono definiti come banchi a dissipazione di potenza; esistono anche banchi prova a ricircolo di potenza, che non verranno qui trattati.

Ci sono vari metodi per implementare la coppia frenante dinamica che differiscono sostanzialmente in base al principio di funzionamento del freno dinamometrico. Alcuni di questi sfruttano concetti come le correnti parassite o l’isteresi, mentre altri impiegano un motore elettrico come generatore, dissipando la potenza elettrica generata tramite grandi resistenze.

Il freno a correnti parassite sfrutta il fenomeno definito dalla legge di Lenz, la quale dice che muovendo un materiale conduttore all’interno di un campo magnetico si genererà una corrente nel conduttore, la quale a sua volta genererà un campo elettromagnetico con direzione opposta al primo, così generando un effetto frenante. In questa maniera, connettendo un disco metallico all’albero del motore da caratterizzare, si può imporre una coppia opposta precisamente modulabile in base alla corrente impostata (Figura 2).

Il freno a isteresi sfrutta un concetto simile (Figura 3), basandosi su un rotore meccanicamente connesso all’albero del motore, e uno statore con struttura polare reticolata, con al suo interno un avvolgimento. Non appena quest’ultimo viene alimentato, il traferro tra la struttura polare ed il rotore viene pervaso da un flusso magnetico, forzando un freno magnetico sul rotore. Lo sfruttamento di un motore elettrico come generatore, utilizzando resistori freno come mezzo di dissipazione della potenza elettrica generata, è un concetto solitamente nell’ambiente della locomozione. Questo trova le sue basi nell’effetto Joule, il quale dice che in un generico elemento di un circuito attraverso il quale scorre una certa corrente I, soggetto ad una data tensione V, vi sarà una certa potenza elettrica P=VI, la quale verrà trasformata in energia termica, in calore. Questo metodo è particolarmente ricercato in quanto l’energia elettrica generata in tale maniera può sì venire completamente dissipata attraverso una resistenza frenante, ma può anche essere utilizzata per ricaricare le ipotetiche batterie di un autoveicolo. Il primo caso è noto come frenatura a reostato, mentre il secondo è definito come frenatura dinamica.

Tutte queste metodologie di controllo sulla frenatura vantano diversi vantaggi nell’assenza di frizioni, assicurando quindi una manutenzione ridotta. Al contempo generano grandi quantità di calore, che devono essere opportunamente gestite e dissipate.

Implementazione del controllo della frenata a reostato mediante Arduino

Una carenza della frenata a reostato si trova nell’impossibilità nel modulare la quantità di coppia frenante prodotta, in quanto essa dipende unicamente dal valore del resistore. Se concettualmente si potesse modulare il valore della resistenza si riuscirebbe dunque a controllare precisamente il valore della coppia frenante. Praticamente, questa soluzione ha alcune difficoltà di implementazione, in quanto si incorrerebbe in una maggiore usura del sistema dovuta agli inevitabili sbalzi di temperatura, a costi più elevati per i componenti stessi, i quali dovrebbero essere più resistenti e adatti a coprire un grande campo di situazioni, e alla possibilità di guasto del sistema in caso di danneggiamento di un singolo elemento. Se invece si potesse andare a controllare non il valore della resistenza frenante, la tensione applicata a quest’ultima, non si presenterebbero i problemi precedentemente esposti, e la modulabilità della coppia frenante sarebbe comunque ottenibile.

Per ottenere la modulazione della tensione si può utilizzare la tecnica PWM (Pulse Width Modulation), ossia modulazione dell’ampiezza temporale di un’onda quadra. Questa si basa sulla produzione di una onda quadra caratterizzata da una certa frequenza (frequenza portante) e ampiezza; regolando la durata della fase “alta” dell’onda quadra, rispetto a quella “bassa” si riesce a controllare la tensione media in ogni periodo dell’onda quadra. Il rapporto fra tempo di attivazione dell’onda quadra ed il suo periodo viene definito duty cycle.

Per generare e gestire il PWM viene utilizzata una scheda Arduino Uno, che può essere facilmente programmata in modo da gestire l’intero controllo della dinamo freno. La scheda Arduino funziona con segnali a bassa potenza, per poter controllare il reostato si deve quindi realizzare un’interfaccia di potenza composta da transistor e Mosfet. Mandando il segnale di comando generato tramite Arduino in entrata al piedino di controllo del transistore, il gate, si può definirne il comportamento  e gestirne l’andamento dello stato: chiuso o aperto. Controllando la percentuale del duty cycle, tramite questo metodo si è in grado di modulare la tensione del generatore, andando così a imporre una tensione maggiore o minore sulla resistenza. In tale maniera, la coppia frenante, la quale dipende dalla potenza elettrica, a sua volta direttamente proporzionale alla tensione, sarà incrementata o diminuita seguendo il comportamento dell’onda quadra. Nella Figura 4 viene mostrato il principio di funzionamento del PWM, così come il segnale risultante (tensione media rappresentata dalla linea rossa) a seconda di diverse percentuali di duty cycle applicate.

Il transistore Mosfet viene quindi utilizzato come un interruttore ad alta frequenza, che si apre e si chiude migliaia di volte al secondo. Questo dispositivo, composto da un materiale semiconduttore, consente tramite l’applicazione di una bassa tensione al suo terminale di controllare il passaggio di corrente elettrica tra i terminali drain e source, effettivamente funzionando da interruttore. Esistono svariate tipologie di Mosfet, ma per questa applicazione è stato selezionato un n-Mosfet, il quale si comporta come un interruttore normalmente aperto. Questo componente, data la sua resistenza ad alte temperature e la sua capacità di sopportare alte tensioni e correnti, oltre al suo basso costo, copre perfettamente il ruolo richiesto. In questo modo, tramite la programmazione della scheda elettrica Arduino Uno, si è in grado di impostare su un’uscita digitale un segnale PWM, con un certo periodo e duty cycle. La frequenza si baserà sull’orologio interno della scheda, rimanendo ad un valore costante di 980 Hz, mentre il duty cycle sarà completamente modulabile per controllare quanto a lungo in ogni periodo il Mosfet si comporterà come un interruttore chiuso, in pratica definendo il valore medio della corrente che lo attraverserà.

Il transistore selezionato non può però essere direttamente connesso al microcontrollore Arduino per due principali ragioni: in primo luogo il Mosfet richiede una tensione gate-source, il segnale utilizzato per controllare il comportamento dello stesso, di almeno 10 V. L’Arduino Uno in utilizzo è però in grado di emettere una massima tensione di 5 V. In secondo luogo, è necessario un circuito di protezione e amplificazione tra il microcontrollore e il transistore, per evitare metastati, picchi di corrente in direzione opposta, e capacità parassite. Entrambi i problemi sono stati risolti tramite l’implementazione di un Mosfet driver, un componente in grado di controllare anche i più esigenti Mosfet di potenza e nel contempo proteggere il circuito di comando. Inoltre, può essere guidato da una tensione relativamente bassa, sufficiente per il segnale di output dell’Arduino. Questo semplice driver permette di rimpiazzare numerosi componenti discreti, riducendo lo spazio di assemblaggio su PCB e diminuendo i costi.

Un ultimo intoppo è stato incontrato nel grande valore di potenza elettrica emessa dal generatore. Infatti, ruotando a diverse centinaia di giri al minuto, a seconda del duty cycle impostato sui Mosfet, si andavano a generare fino a 4 kW di potenza, un valore decisamente superiore alla massima potenza elettrica dissipabile da un transistore. Data però la dipendenza dalla corrente, è bastato realizzare dei banchi di Mosfet in parallelo per dividere la corrente prodotta e ridurre la effettiva potenza su ogni singolo componente.

Sfruttando tutte le tecniche precedentemente descritte, siamo arrivati ad avere un sistema composto da un motore il cui albero è connesso tramite un giunto ad un generatore trifase. Quest’ultimo produce una corrente alternata che viene rettificata attraverso un regolatore di tensione, ottenendo così una corrente continua. Il regolatore è dunque connesso tramite i banchi di transistori ad una resistenza frenante, un avvolgimento di cavo attorno ad un nucleo di ceramica in grado di dissipare la potenza elettrica che lo attraversa in calore. I Mosfet a loro volta sono comandati da un modulo driver che protegge e amplifica il segnale di controllo prodotto dalla scheda Arduino utilizzando il metodo PWM (Figura 5).

A questo punto non resta che implementare un metodo di controllo ad anello chiuso, in particolare un controllo PID. Questo si basa su tre variabili di amplificazione, di fatto una proporzionale, una integrativa, ed una derivativa. La variabile proporzionale va ad agire sull’errore: se questo è ampio e positivo, infatti, l’uscita controllata sarà proporzionalmente ampia e positiva, a seconda della grandezza del valore Kp. La variabile integrativa invece tiene conto dell’errore residuo derivato dal controllo proporzionale, aggiungendo un effetto di controllo dato dalla storia cumulativa dell’errore stesso. Una volta che l’errore è eliminato, il termine integrale smetterà di crescere. Infine, la variabile derivativa si basa sulla velocità di cambiamento del segnale in ingresso. Più veloce è il cambiamento più grande sarà l’impatto del termine derivativo. Questi tre valori si devono bilanciare accuratamente per ottenere un comportamento stabile e controllato.

Chiaramente un controllo ad anello chiuso richiede un sensore che rilevi una variabile di interesse che permette di andare a modificare il comportamento del sistema a seconda del valore della stessa. Nel nostro caso questo controllo è stato eseguito in due maniere: in un primo scenario, un torsiometro è stato applicato sul giunto flessibile di interconnessione tra il motore e il generatore, e il valore rilevato dal sensore è stato mandato al microcontrollore come variabile di retroazione, dalla quale dipenderà il controllo PID.

In un secondo scenario, i valori di tensione e corrente della resistenza frenante sono stati letti tramite dei sensori applicati ai terminali del reostato, e sfruttando questi parametri la coppia frenante generata dal sistema è stata edotta tramite la seguente formula:

Uno schema esplicativo del sistema finale che include entrambi i metodi di controllo ad anello chiuso è mostrato in Figura 6.

 

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