Specializzati sì, ma fino a un certo punto!

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Il dialogo tra aziende, istituti tecnici e Università è strategico per ridurre il mismatch che caratterizza il nostro mercato del lavoro. Ma le imprese devono rendersi conto che la formazione ha i suoi tempi. Che sono diversi da quelli dell’evoluzione tecnologica

«La collaborazione tra il mondo industriale e quello della formazione scolastica e universitaria già esiste e naturalmente si può migliorare e rendere ancora più efficiente di quanto già non lo sia, ma va sempre tenuto presente che i nuovi percorsi formativi per essere progettati ed implementati richiedono del tempo così come lo richiede la formazione dei nuovi tecnici, siano diplomati o laureati, ed è quindi impegnativo rimanere al passo con l’aggiornamento sempre più veloce delle nuove tecnologie», afferma Claudio Giardini, docente di Tecnologia meccanica e di Gestione industriale della qualità presso il Dipartimento di Ingegneria Gestionale, dell’Informazione e della Produzione dell’Università degli Studi di Bergamo.

Può spiegarsi meglio?

Se oggi dovesse approdare sul mercato una tecnologia di ultima generazione le imprese non possono pretendere una risposta immediata del sistema formativo alle loro esigenze. Semplicemente perché anche chi forma a sua volta deve essere formato prima di entrare in aula: occorre conosca le tecnologie, occorre si documenti e prepari il relativo materiale didattico, si possano realizzare ed attrezzare opportuni laboratori. Bisogna inoltre ricordarsi che per formare una persona che entra oggi in università ci vogliono come minimo 5 anni. Non si può esigere di trovare sul mercato un neolaureato o un neo diplomato che possa essere fin da subito operativo in azienda senza un adeguato completamento della sua formazione rispetto alla specifica realtà aziendale e al ruolo che andrà a ricoprire. Pare banale dirlo, ma mentre per una nuova attrezzatura produttiva è sufficiente accendere un interruttore per poterla utilizzare, per le persone serve un’adeguata formazione specifica per renderle capaci di usare al meglio questa attrezzatura. E’ noto che nel momento in cui entra in azienda un nuovo macchinario per un dipendente, anche se molto preparato o con esperienza alle spalle, il problema della formazione resta. Le persone, appunto, non sono macchine che si accendono e si spengono con un interruttore. Non a caso oggi si parla sempre più spesso di long life learning, di formazione continua e questo vale sia in ambito personale che professionaleindipendentemente dall’età anagrafica del lavoratore.  E poi c’è anche un altro fattore di cui tenere conto…

Claudio Giardini

A quale specifico fattore si riferisce?

Che i ragazzi, sia in Università sia nei laboratori degli istituti tecnici, imparano a lavorare su un determinato modello di macchinario e basta semplicemente che nell’azienda dove vanno a lavorare ne usino uno diverso per metterli nelle condizioni di dover essere formati in maniera più specifica, magari supportati da un tutor interno o da chi ha fornito il macchinario.

Quindi come è possibile andare incontro alle esigenze delle imprese?

Compito della scuola e delle Università è quello di formare dei bravi tecnici con un background formativo che poi consenta loro di adattarsi e convertirsi ed essere in grado di operare rapidamente in diversi ambiti del mercato. Va bene specializzare le persone, ma credo fino a un certo punto. Solo così la loro employability sarà garantita (cosa di cui gli enti di formazione devono preoccuparsi) anche nel momento in cui la loro specializzazione o quella di un macchinario o di un’area di operatività diventerà obsoleta. Poi naturalmente, come previsto dalla normativa vigente e dal Ministero, tutti i nuovi corsi universitari hanno un iter di progettazione che prevede l’organizzazione di tavoli di incontro tra atenei e i cosiddetti portatori di interesse, ovvero aziende o associazioni di categoria che possono essere interessati ad assumere i ragazzi e le ragazze alla fine del loro percorso formativo. E questo vale anche per i corsi già esistenti che sono soggetti a revisioni periodiche. Aziende e associazioni hanno il compito di dare input alle università su quelle che possono essere le nuove professionalità di cui il mercato ha bisogno.  Ma, come ho detto prima, la formazione ha i suoi tempi e tutti ne debbono essere consci.

Lo stesso discorso vale anche per gli Istituti tecnici superiori?

Si certo, loro in genere lavorano molto di più a livello locale.  Con le aziende presenti sul territorio. L’interlocuzione tra azienda e scuola è alla base di tutto. Certo, gli istituti tecnici avrebbero poi bisogno di una riorganizzazione anche normativa, come peraltro previsto dal Pnrr ma, al di là di questo, non si può pensare che un Istituto tecnico abbia indirizzi di specializzazione infiniti. Bisogna trovare, insomma, un giusto compromesso tra una formazione generale e percorsi che possono essere particolareggiati. Ma non si può pensare a iter formativi troppo settoriali, soprattutto in un quadro di riferimento come quello attuale con panorami economici e lavorativi sempre più liquidi. La formazione deve tenere conto delle possibili evoluzioni tecnologiche legate a doppio nodo a quelle delle organizzazioni aziendali e quindi del mercato del lavoro. Pensando anche a un’occupabilità delle persone che duri nel tempo. L’orizzonte non deve essere a breve e questo le aziende dovrebbero considerarlo.

Nadia Anzani

 

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