Statico o dinamico?

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Ha senso parlare di statico e dinamico anche nel mondo manifatturiero? Sì, e non limitandosi alla fisica.

Statica e dinamica sono i due comparti della fisica classica che definiscono situazioni ben precise. Se la statica studia l’equilibrio di un corpo, ovvero le condizioni che devono verificarsi affinché quel corpo permanga nelle condizioni di equilibrio, la dinamica è quella branca della meccanica che studia il moto dei corpi in relazione alle cause che lo determinano. Si tratta dunque di “modi di essere” ben differenti, generati da situazioni differenti e quindi con conseguenze diverse, senza con questo dare definizioni di “bene o male” oppure di “buono o cattivo”.

Ma, senza voler fare della filosofia spiccia, è possibile associare statica e dinamica a modi di essere del mondo manifatturiero o, più in generale, alla collettività? La storia dell’evoluzione industriale sembrerebbe dire di sì.

Senza andare troppo indietro nel tempo, ma focalizzando l’attenzione sugli ultimi 50-70 anni, è evidente come una azienda statica, gestita con una mentalità statica (fixed mindset, è la definizione più usata attualmente), cercherà di confermare costantemente il proprio valore, ma sarà limitata nel raggiungimento di qualsiasi obiettivo esuli dal contingente. È il caso del “si è sempre fatto così”. Di contro, quando prevale le mentalità dinamica (growth mindset) si ha un forte spirito al raggiungimento di nuovi traguardi, anche ambiziosi, con uno stimolo all’evoluzione continua. Questa condizione è stata paragonata al videogioco dove i livelli vengono scalati progressivamente, con perseveranza, tendendo a un’ipotetica vittoria (che non è detto esista!).

Resilienza è growth mindset?

Stando alla differenza fra statico e dinamico, verrebbe da chiedersi come si collochi la ormai tanto citata resilienza. Per non incorrere in errori, facendo ricorso alla definizione data dallo Zingarelli, noto dizionario della lingua italiana, la resilienza è la “capacità di un materiale di resistere a urti improvvisi senza spezzarsi”.

E, visto che stiamo parlando di mondo manifatturiero, imbevuto di tecnologia meccanica, chi non conosce le prove di resilienza fatte col pendolo Charpy? Il provino è fermo, viene colpito dalla mazza, e si studia quando, per ef- fetto della sollecitazione subita in seguito all’urto, si rompe.

Oggi si parla tanto di resilienza, ma cosa si vuole intendere? La resilienza è un “far fronte” a una determinata situazione (negativa) e, sfoderando tutte le armi possibili, resistere, così come il provino resiste all’urto senza rompersi. Ma questo è sufficiente? In un momento di crisi certamente sì perché l’importante è salvarsi, rimanere a galla, ma nel lungo periodo? Quando l’urto cessa, quando il momento difficile è stato superato, la resilienza non è più sufficiente perché non spinge a “guardare oltre” e, in ultima analisi, rende fragili.

Oggi il termine resilienza è sulla bocca di tutti, ed è proprio la resilienza che ha permesso a tante aziende di superare la crisi del 2008 e il periodo di emergenza del Covid, solo per citare gli eventi clamorosi degli ultimi 20 anni.

Forse sarà ancora la resilienza che permetterà al comparto manifatturiero di superare i prossimi mesi che, com’è noto, si annunciano burrascosi, ma non sarà la resilienza a far progredire e crescere, perché la resilienza è consolidamento delle posizioni acquisite. Il che, in un periodo nero, non è certamente poco.

Tornando a “resilienza è growth mindset?”, no non lo è perché riporta al punto di partenza (a prima della crisi), contrariamente a quando vuole la dinamica.

 

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