Il reshoring produttivo e delle forniture

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Il fenomeno, che ha radici ben più profonde di quel che sembra, è una scelta aziendale a volte molto costosa, ma, per certi versi, favorisce la produzione meccanica made in Italy.

Gli eventi dell’ultimo quadriennio hanno modificato diversi equilibri, destabilizzando alcuni saldi sistemi dello scenario imprenditoriale. Nel 2020 – ma anche prima – le imprese hanno iniziato, sempre più insistentemente, a parlare di reshoring, individuando in questa scelta una possibile strategia manageriale, per fortificare la resilienza della supply chain. Ridurre le distanze tra approvvigionamento dei fattori produttivi, produzione e vendita sembrava la scelta migliore o, quanto meno, una possibile opzione per affrontare la problematica incombente. Durante l’emergenza pandemica questa “opzione di rientro” appariva come l’unica soluzione allo stallo in corso, mentre l’isteria imprenditoriale (sicuramente giustificata) divampava come un incendio indomabile. Poi pian piano l’emergenza è cessata; le imprese sono uscite diverse dalla tempesta che hanno attraversato e la famosa resilienza – di cui si è scritto tanto e con la quale sono stati conditi i più appetitosi discorsi tematici – è risultata una caratteristica insita nel DNA delle imprenditorie italiane. Di fatto, poi, due anni dopo, ad inizi 2022, contestualmente all’invasione russa in Ucraina, gli squilibri derivanti dalla crisi bellica sono stati affrontati con maggiori consapevolezze. Tuttavia, sia nel 2020 che nel 2022, è emersa la grande fragilità delle catene globali di produzione e di approvvigionamento e l’idea di una rilocalizzazione delle attività produttive e delle forniture si è concretizzata sempre maggiormente. Ma quanto ne sappiamo di questa pratica ed è davvero un fenomeno dell’ultimo quadriennio? Le motivazioni del reshoring sono davvero rinvenibili solo nella crisi pandemica e nella guerra in Ucraina? E, soprattutto, quante sono poi le realtà imprenditoriali che hanno davvero optato per questa scelta? Infine, il reshoring è davvero conveniente o ci sono possibili alternative?

Un fenomeno che viene da lontano

Il fenomeno del reshoring produttivo non è così recente come appare, ma arriva da lontano e, quindi, in un certo senso sembra diventato quasi fisiologico. Non è dal 2020 che le imprese decidono di rientrare in Italia, ma da ben prima: le motivazioni di tali scelte sono attribuibili ai numerosi eventi susseguitesi non solo negli ultimi quattro anni, come si potrebbe pensare a primo acchito. Il problema parte con la crisi dei subprime, nel 2008, un evento che ha avuto notevole peso sullo scenario economico globale. Quando, poi, dopo un decennio, sembrava raggiunto un nuovo equilibrio, prima l’emergenza pandemica e poi il conflitto bellico hanno sparpagliato nuovamente le carte in tavola e fatto apparire il reshoring come quel “deus ex machina” che arriva, durante la tragedia greca, e risolve. Ma, dal fallimento di Lehman Brothers al 2020, il mondo era già cambiato: i principali paesi emergenti avevano subìto una trasformazione del proprio contesto economico, la tecnologia aveva favorito il mutamento nel paradigma produttivo e la transizione era diventata l’obiettivo principale di tutti i governi e delle entità sovranazionali. Pertanto, le imprese che avevano delocalizzato la propria produzione all’estero, hanno forse avuto una spinta dall’emergenza sanitaria, ma il possibile disagio, per quelle afflitte, già c’era. In precedenza, chi sentiva l’esigenza di rientrare lo faceva, probabilmente senza troppa pubblicità. In un certo senso, prima dell’emergenza pandemica, il rientro veniva visto come un fallimento. Con la crisi, invece, è arrivata una sorta di “giustificazione”, per un mal comune (senza mezzo gaudio). Con l’invasione dell’Ucraina, poi, si è manifestato, in tutta la sua pienezza, un altro punto di debolezza, già presente durante il 2020, ovvero la criticità degli approvvigionamenti di materie prime e semilavorati. Nel 2021, infatti, l’UNCTAD aveva mostrato la necessità di una nuova architettura internazionale della produzione, evidenziando la frammentazione delle catene del valore (con un’eccessiva lunghezza), sottolineando la problematica della concentrazione geografica produttiva e richiedendo un’indispensabile revisione del trade off, per equilibrare i ruoli nell’import, con il rafforzamento o la costituzione di partnership solide. Poi, mentre si cercava la soluzione, la guerra ha riproposto in forma più aggravata la situazione. A un certo punto è sembrato quasi che il concetto di “free trade”, leitmotiv dell’ultimo cinquantennio, fosse a un passo dal fallimento, invocando un’autarchia tipica del 1700 che ovviasse al problema. Fortunatamente il tutto è durato poco.

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