Il capitalismo della subfornitura

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Ci si fa poco caso, ma se guardiamo i vari portali – Uber come Booking, Amazon o Facebook – c’è una cosa che li accumuna: scaricare sui fornitori il rischio d’impresa.

Pensateci: Uber non possiede alcun taxi, Booking certo non ha hotel nel proprio patrimonio, Amazon vende soprattutto merce di altri e Zuckerberg nei suoi contenitori (Facebook e Instagram) non produce un contenuto che sia uno, non una storia, non un articolo, non una fotografia.

Questi portali, meglio definiti come piattaforme, rappresentano l’ultima frontiera della ricchezza. Del resto, non è casuale che si parli di questo nuovo modello di business come di “capitalismo delle piattaforme”; un capitalismo che si sta diffondendo su scala mondiale e che non si limita, si badi bene, al solo mondo virtuale. Piattaforme digitali di questo tipo, ad esempio, sono utilizzate anche dalle società che si occupano di logistica. Del resto, non ci sono poi grandi differenza con Uber: trasportare merci o trasportare persone non è, in fondo, così diverso.

E, a ben vedere, se ci spostiamo dal mondo digitale a quello manifatturiero, non è tanto diverso da quello che accadeva (ma che accade anche oggi) nell’ambito della subfornitura, dove ci sono fornitori, termine non scelto a caso, che operano in regime di mono committenza con clienti che non vogliono assumersi il rischio (in questo caso le spese) di accollarsi i costi delle produzioni appaltate all’esterno, a questi “dipendenti con partita IVA”.

Potremmo definire questo approccio come “capitalismo della subfornitura”, perché spesso e volentieri anche questo, come quello delle piattaforme, si traduce in uno sfruttamento – termine azzardato, ma in qualche caso non esagerato – di diverse competenze professionali.

Uscire da questa impasse non è difficile, è difficilissimo, perché a volte significa dover cambiare cultura. Occorre cercare di essere qualcosa di più di fornitori, ma diventare partner, vale a dire incorporare servizi, risolvere problemi, aggredire il mercato quando le cose vanno bene (perché è più facile lavorare sulla qualità, quando la domanda è elevata, piuttosto che farlo quando la situazione è meno rosea, in quanto in quel caso la concorrenza si sposta sul prezzo). Il che significa raccogliere contatti, partecipare alle fiere, alle iniziative di business to business, fare formazione, trovando il “tempo” per farlo, anche quando si hanno ordini e sembrerebbe meglio lavorare, lavorare e lavorare. Ma anche il tempo può essere un investimento “4.0”. Semplicemente perché il mercato non aspetta.

di Ermes Ferrari

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