La (breve) strada verso casa. Intervista a Giulio Sapelli sul fenomeno reshoring

Roberto Carminati

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Giulio Sapelli

«Una grande opportunità per l’impresa Italia, viva e resiliente»: l’economista Giulio Sapelli fa il punto sul fenomeno della rilocalizzazione della attività produttive in tempo di pandemia. Per quanto possa sembrare paradossale, infatti, l’emergenza sanitaria e sociale causata dalla diffusione planetaria del coronavirus può anche rappresentare un’occasione per ripensare l’attuale modello produttivo e commerciale, privilegiando le catene di fornitura corte e la manifattura locale.

La tendenza al cosiddetto reshoring e quindi alla rilocalizzazione sul territorio nazionale di attività in precedenza trasferite all’estero, segnatamente ai presunti paradisi della manifattura a basso costo, non è un fenomeno recente. Tuttavia, le complicazioni innescate dall’emergenza socio-sanitaria legata alla recente pandemia potrebbero adesso accelerarne il passo. Secondo studi di Istat usciti nel 2019 e promossi dalla Commissione europea nel contesto del progetto di ricerca International sourcing, fra il 2015 e il 2017 solo il 3,3% delle imprese medio-grandi aveva deciso di delocalizzare all’estero funzioni svolte, prima, in Italia.

Al contrario, la quota era del 13,4% nel periodo compreso fra il 2001 e il 2006. Ripresa anche da altre fonti, l’indagine Istat ha certificato che 700 società in Europa hanno attuato politiche di delocalizzazione nel triennio 2015-2017 e che oltre 1.000 hanno però scelto l’Italia come sede per l’outsourcing di mansioni svolte internamente. È stato infine notato che poco meno di un terzo di queste 1.000 sono riconducibili al rientro di investimenti di terziarizzazione all’estero da parte di gruppi del made in Italy. D’altra parte, la Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, Eurofond, ha censito 39 casi di reshoring riguardanti direttamente la Penisola a cavallo fra il 2015 e il 2018. Soltanto il Regno Unito aveva conseguito numeri più interessanti; ma negli anni dal 2014 al 2019 sono rientrate nel nostro paese altre 120 insegne, che hanno contribuito a consolidare il trend.

Il vento sta cambiando

In tempi più recenti della possibilità di una più massiccia ondata di ritorni in patria ha discusso, in un’intervista a Class-Xinhua News anche il presidente di Federmeccanica, Alberto Dal Poz. Questi è partito da alcune considerazioni sugli effetti devastanti del virus sulle supply chain globali e sulla fornitura di componenti al manifatturiero made in Italy. In Cina, secondo quanto riportato da Dal Poz, i distretti industriali paralizzati a causa del coronavirus sono stati ben 24 per un’incidenza complessiva dell’80% sul prodotto interno lordo nazionale. E immaginabili ripercussioni negative sulla clientela nostrana.

Ma «è già partito il reshoring», ha detto il numero uno della Federazione. Anche per motivi diversi dall’allarme di questa prima metà dell’anno: «Le aziende si stanno riattrezzando – ha riportato Classper produrre localmente i componenti che negli ultimi dieci anni avevano portato in Cina per convenienza economica. I partner americani mi dicono che le delocalizzazioni, decise una decina di anni fa in base a pricing e costi, oggi non sono più convenienti, perché nel frattempo la tecnologia è cambiata e ha ridotto l’incidenza del costo del lavoro. Le imprese americane hanno investito in nuove tecnologie e gli ultimi anni di economia prospera hanno contribuito a migliorare le condizioni per riportare a casa numerose produzioni». D’altra parte, un’opinione simile era stata espressa a Meccanica News dal responsabile commerciale della brianzola Giurgola Stampi, Lino Pastore; e dal titolare della bergamasca AR Ratti, Alessandro Ratti. Entrambi, già alla fine di febbraio iniziavano ad avvertire nella meccanica tricolore una certa volontà di tornare a rifornirsi sul territorio, tagliando fuori i canali d’approvvigionamento dell’Asia.

Il peso dei metalli

Del ritorno in patria di alcune produzioni più o meno strategiche si è occupata in tempi recenti anche siderweb con l’evento online intitolato La nuova geografia dell’acciaio fra globalizzazione e reshoring. In linea con la sua vocazione originaria la community bresciana ha puntato i riflettori soprattutto sulle prospettive della siderurgia, inquadrando però quest’industria in un contesto più ampio. Quello, appunto, di una ridefinizione degli scenari del commercio mondiale e soprattutto delle grandi catene del valore che interessa vaste porzioni del manufacturing.

È vero per esempio che sino a questo momento i grandi protagonisti del rientro sono stati i sistemi del tessile, della moda e dell’abbigliamento. Ma anche che a ruota li hanno seguiti altri comparti incluso quello del medicale, del quale l’emergenza coronavirus ha fatto risaltare il ruolo necessario; e la necessità che i suoi player restino il più possibile a portata di mano in caso di (estremo) bisogno. Per quel che riguarda l’automotive, i beni strumentali (macchine e apparecchi meccanici); l’elettronica e i prodotti in metallo, la loro incidenza sul totale delle rilocalizzazioni degli ultimi anni è pari al 40%.

Non è un peso determinante, perciò, e secondo uno dei responsabili dell’ufficio studi di siderweb, il Prof. Gianfranco Tosini, le sue ricadute sull’occupazione saranno poco più che trascurabili. Specie se si pensa all’auto, che continuerà a godere sui mercati asiatici di orizzonti ben più allettanti di quelli garantiti dall’Europa. È un fatto però che il Covid-19 «ha evidenziato i rischi dati dalla distanza» fra gli anelli delle catene di fornitura «e i vantaggi dell’accorciamento delle catene stesse». Le multinazionali «hanno messo mano alle rispettive supply chain restituendo centralità ai paesi d’origine o casa-madre». Quanto ai tempi di realizzazione delle strategie di reshoring, essi si riveleranno inevitabilmente più brevi per le industrie che non hanno stanziato investimenti particolarmente ingenti per le strategie di delocalizzazione»; tenderanno a dilatarsi per tutte le altre.

Le condizioni necessarie

La pandemia è stata sin qui un acceleratore del rimpatrio ma perché il fenomeno si consolidi e diventi duraturo serviranno condizioni favorevoli e attraenti per il business. Non solo stimoli e sgravi fiscali a favore delle imprese – elementi che hanno fatto degli Stati Uniti i primatisti internazionali del reshoring con le loro 1.000 operazioni dal 2004, per 750 mila nuovi posti di lavoro complessivi, ma soprattutto, ha affermato il Prof. Tosini, «infrastrutture più efficienti, un maggiore livello di produttività, investimenti in ricerca e sviluppo, qualità del capitale umano, gli incentivi pubblici». Temi che riguardano l’industria nella sua totalità e gli utilizzatori di acciaio in modo particolare e che vanno approfonditi e cavalcati qui e ora. Ovvero in un momento in cui – è quel che Siderweb ha tratto dalle sue analisi – si fanno sentire pesantemente gli oneri legati alla logistica e gli effetti dell’aumento del costo del lavoro anche a Pechino e in Oriente. E al tempo stesso si è avuta conferma definitiva che in larga parte le produzioni delocalizzate non possono competere per qualità con quelle contrassegnate dall’etichetta di un autentico e genuino made in. C’è infine, e non meno importante, il bisogno o il desiderio di dimostrarsi vicini ai clienti nei mercati-chiave. «La pandemia – ha commentato Tosini mostra quanto siano fragili il sistema di produzione internazionale del 21esimo secolo e il modello di globalizzazione fondato su un’elevata frammentazione produttiva che ha originato le cosiddette catene globali del valore o GVC, le mega-filiere basate sull’insieme delle attività svolte da imprese che si trovano in Paesi diversi e che coprono tutti i passaggi dall’ideazione alla vendita all’utilizzatore finale del prodotto». Delle GVC la Repubblica Popolare è stata ed è «uno dei nodi principali», in quanto fornitrice di spicco di beni intermedi, «utilizzati da altri paesi per la loro produzione ed export di beni finiti» – le cui vendite all’estero «sono salite dal 24% delle esportazioni totali nel 2003 al 32% nel 2018». Gli scambi di beni intermedi valgono il 56% del commercio internazionale ma se già la crisi del 2008 aveva «ridimensionato l’effetto moltiplicatore delle GVC» gli anni successivi non hanno fatto che accentuare la flessione. «Dal 2012 il divario di crescita tra la produzione e il commercio mondiale si è praticamente annullato, oltre che per motivi congiunturali come il rallentamento del tasso di crescita dell’Unione europea e della Cina, anche per motivazioni di ordine strutturale». Fanno parte di quest’ultima categoria, appunto, gli stessi fenomeni e strategie di rilocalizzazione.

L’analisi di Guido Sapelli

Intervista a Giulio Sapelli, economista, storico, dirigente d’impresa e docente ordinario di Storia economica presso l’Università degli Studi di Milano, dove insegna anche Economia Politica; autore del libro 2020: “Pandemia e resurrezione” (Edizioni Angelo Guerini e Associati).

La resurrezione, professore, passa anche per la scoperta che «la globalizzazione non è inevitabile» e, come lei stesso ha scritto recentemente, dall’idea di una «nuova territorialità»?

Senz’altro. La tendenza al reshoring è ormai in atto da diversi anni e riguarda le macchine utensili e i beni strumentali in primo luogo. Perché sono complessi e impongono livelli di qualità elevati: produrli in Cina non è conveniente, così come non è conveniente per settori come l’elicotteristica e l’avionica. Nella stessa Repubblica Popolare il problema è oggi la mancanza di manodopera qualificata, che stimola gli investimenti in robotica e automazione ma richiede una ricalibrazione dei cicli produttivi. Si rilocalizza, dunque, puntando sulla qualità e questo significa lasciare anche Paesi dalla scarsa tradizione o cultura della manifattura e della meccanica, per esempio la Romania“.

La pandemia si è quindi limitata, per dir così, ad accelerare un processo già in parte in atto?

La pandemia ha provocato un crollo tecnico momentaneo degli scambi, del quale Paesi come la Germania, che ha attuato misure di contenimento diverse dalle nostre, hanno risentito meno. Oggi, le catene stanno cominciando a riannodarsi ma il rallentamento della globalizzazione è ormai in atto da un paio di decenni circa, a dispetto di quel che comunemente si pensi. La pandemia ne è una concausa e non la causa principe. Non si commercia fra Stati, gli accordi commerciali multilaterali sono un ricordo del remoto passato e sono stati sostituiti da quelli bilaterali, ma fra catene di imprese. Quella Cina che ancora da sola vale il 15% circa degli scambi internazionali, è in flessione da almeno cinque-sei anni. I dazi sono ben poca cosa; fra catene di imprese contano più che altro standard e regolamenti tecnici. Questo, insieme alla prevalenza degli accordi bilaterali, apre la strada a forme di protezionismo selettivo che interessano solamente alcuni anelli della catena, non la sua totalità. E quanto ai dazi, si pensi all’acciaio: la siderurgia è protagonista del reshoring europeo, ma è poco protetta dall’invasione del prodotto cinese e asiatico respinto dagli Stati Uniti“.

L’intervista continua nell’articolo completo

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