Il cocktail delle tensioni

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Sono numerose le trasformazioni a cui è normalmente sottoposto un materiale. E tali trasformazioni avvenute in tempi diversi, unite alle sollecitazioni in esercizio, contribuiscono alla formazione di uno stato tensionale.

Come dovrebbe essere ormai ben noto a chi segue queste pagine, le tensioni residue presenti su un componente altro non sono che la memoria (il “residuo” appunto) delle trasformazioni meccaniche, chimiche o termiche che hanno portato dalla materia prima al prodotto finito: se poi il componente non è nuovo ma in esercizio, allora anche le sollecitazioni in esercizio contribuiscono allo stato tensionale che ci troviamo di fronte. Tutto questo è un processo i cui fondamenti teorici sono abbastanza delineati e noti, con una plausibile prevedibilità (perlomeno qualitativa) del profilo di distribuzione delle tensioni residue in funzione della profondità a seconda dei diversi processi di trasformazione (fatti chiaramente salvi eventuali errori di processo…).

Ma cosa succede quando le trasformazioni a cui sia stato sottoposto il materiale siano state molteplici, magari realizzate in sequenza in tempi diversi? Ciascuna delle suddette trasformazioni produce sul materiale effetti diversi, effetti che a loro volta si integrano o alterano gli effetti delle trasformazioni precedenti, con il risultato che lo stato tensionale presente può essere non solo imprevedibile ma anche opposto a quello che sarebbe teoricamente attendibile in base all’ultima trasformazione che ha avuto luogo. In questo articolo prenderemo appunto in considerazione un componente esemplificativo della possibile combinazione di effetti, di come tecniche di misurazione diverse possano dare luogo a misure apparentemente diverse e come tali differenze debbano essere interpretate e considerate.

Sembra semplice fare un tubo…

Come dovrebbe essere ormai ben noto, la principale fonte di tensioni residue sono le deformazioni plastiche, o per meglio dire la tendenza della parte di materiale che è rimasta in campo elastico a riportarsi nella condizione precedente la deformazione elastica. La sequenza di Figura 1 illustra questo meccanismo basilare:
• data una trave “A” sottoposta ad un carico flessionale sufficientemente elevato, la distribuzione a farfalla degli stati di sollecitazione fa si che gli strati superficiali del materiale risultino deformati plasticamente per trazione sull’estradosso e per compressione sull’intradosso.
• Gli strati sottostante di materiale permangono però in uno stato di deformazione elastica, che tende a riportare il materiale nella sua posizione originaria, e in questo sono ostacolati dagli strati superficiali ormai deformati plasticamente e quindi “stabilizzati” in tale posizione
• Tale ritorno elastico comporta la nascita di una sollecitazione di compressione sull’estradosso e di trazione sull’intradosso, con la parte inizialmente deformata elasticamente che permane (in parte) nel suo stato di deformazione elastica

Il risultato finale è pertanto una distribuzione degli stati di tensione interna, come da Figura 2. Si può quindi considerare che ogniqualvolta si verifichi una deformazione plastica per trazione nel materiale si instaura uno stato tensionale residuo di compressione in superficie e di trazione a cuore, mentre se ad essersi verificata è una deformazione plastica per compressione, il meccanismo si inverte e ne risulta una trazione in superficie e una compressione a cuore.

Consideriamo adesso la realizzazione di un tubo di ridotto spessore: solitamente si parte da un laminato che ha quindi una sua distribuzione delle deformazioni (Figura 3) e conseguentemente una distribuzione delle tensioni residue (Figura 4). Successivamente tale lamina viene piegata a freddo per realizzare la configurazione circolare, con una distribuzione delle tensioni residue dall’esterno verso l’interno come da Figura 2.

Il processo di formazione del tubo viene poi effettuato mediante una saldatura longitudinale per induzione ad alta frequenza (HF welding) seguita da una elettrolucidatura, ossia un’asportazione di materiale attraverso un meccanismo galvanico per una profondità compresa tra 10 ed i 40 micron. Stante la minima invasività del processo di saldatura HF, si può quindi ritenere che lo stato tensionale finale sia la combinazione tra le deformazioni plastiche di partenza, la deformazione elastica indotta dalla saldatura e infine il rilassamento indotto dall’asportazione di materiale causato dalla elettrolucidatura, una combinazione di difficile previsione, ma comunque interessante da misurare per avere un idea di come questi processi si possano combinare per determinare gli stati tensionali realmente presenti con le tecniche a disposizione, mediante le quali è possibile differenziare anche tra le tensioni superficiali e quelle presenti nello spessore del materiale.

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