Dazi e industria: la sfida della meccanica italiana

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La possibile introduzione di dazi statunitensi preoccupa il comparto meccanico, pilastro delle vendite manifatturiere nazionali, con i suoi 12.4 miliardi di export destinati al mercato d’oltreoceano.

Dopo 30 anni dalla nascita della WTO (era il 1995) e quasi un secolo dopo la sigla del GATT, il mondo si trova nuovamente a parlare di dazi: settimane (e forse mesi) di tensioni, in attesa di una temuta guerra commerciale che fa paura e disequilibra borse, mercati e progettualità. Una possibile escalation dalla quale nessuno ne trarrà vantaggio, qualora non fermata, e che preoccupa il comparto meccanico, per il quale il mercato USA si conferma, da sempre, primo cliente di macchinari e impianti made in Italy.

Vecchi strumenti per nuove tensioni commerciali

I dazi sono sempre esistiti e, in effetti, sono uno strumento di tutela per i paesi: hanno quindi ragione d’essere ed è diritto di ogni stato deciderne l’applicazione. Tuttavia, negli anni, è apparso chiaro che, probabilmente, a conti fatti, risulterebbero più dannosi che utili. Analizzando le esportazioni di meccanica italiana, nei vari paesi, noteremo come le imposizioni daziarie sono spesso azzerate o particolarmente basse (non superiori al 5%). Questo perché, soprattutto nei paesi emergenti o in quelli in sviluppo, l’expertise italiana è particolarmente apprezzata e la tecnologia meccanica appare vitale per la crescita economica, attraverso un diretto utilizzo di macchinari.

Spesso questi paesi non sono in grado di produrre autonomamente beni avanzati e, dunque, azzerando i dazi ne favoriscono l’importazione. Ma, se consideriamo ad esempio i prodotti agricoli o quelli del comparto tessile nei medesimi paesi, vedremo che l’imposizione tariffaria è elevata. Questo perché lo stato tende a scoraggiare l’entrata di beni concorrenti a quelli prodotti in loco, e il dazio si erge allora a strumento di tutela.

Il discorso ha un senso logico e, probabilmente, appare quasi scontato quando si parla di determinati stati in fase evolutiva. Nessuno storcerebbe il naso: è comprensibile. Diversamente, la scelta statunitense di imporre dazi erga omnes (quindi verso tutti i paesi), lascia perplessi. Ma, anche in questo caso, la politica impositiva è stata giustificata dall’amministrazione Trump, con ragioni che possono non essere condivise, ma rientrano nell’autotutela nazionale.

Secondo gli USA, l’applicazione delle “tarriffs” all’entrata di beni prodotti fuori dal proprio territorio favorirà la crescita dell’industria nazionale: il mercato, non più aggredito dai concorrenti beni esteri, sarà in grado di produrre maggiormente, autoregolandosi e tornando in forze. Inoltre, in questo modo, con un calo delle importazioni, sarà possibile riequilibrare la bilancia commerciale statunitense, in deficit nel confronto con l’Ue e con altri paesi.

Analizzando gli scambi con Bruxelles, le esportazioni dell’Unione risulterebbero superiori a quelle americane con destinazione vecchio continente. Almeno questo è quello che dicono i dati. In realtà si tratta di una verità parziale: se è corretto per i flussi di beni, non vale lo stesso per la vendita dei servizi. Quelli statunitensi risultano superiori agli europei e, pertanto, in una visione d’insieme, il commercio bilaterale tra i due giganti risulterebbe praticamente equilibrato: i 200 miliardi di surplus europeo per i beni è compensato con quello americano nei servizi. Ma questa narrazione della storia non convince Trump, che ha deciso diversamente.

Il 9 aprile 2025 l’amministrazione Trump ha annunciato una sospensione di 90 giorni per i dazi ad valorem, premiando gli sforzi diplomatici della comunità imprenditoriale globale.

Il MAGA e l’altalenante susseguirsi delle vicende

MAGA, ovvero Make America Great Again (“Rendiamo l’America di nuovo grande”), non è una novità del 2024, ma è lo slogan utilizzato da Trump già nel 2016, durante la sua prima campagna elettorale presidenziale. Solo che, a questo giro, è diventata notoriamente famosa perché collegata alla strategia politica dei dazi, nell’idea di riconversione produttiva del paese. Allo stesso modo, è assurto alle cronache il famoso Liberation Day, il 2 aprile 2025: annunciato a più riprese, si è concretizzato nel Giardino delle Rose, alla Casa Bianca, quando il presidente degli USA ha dato voce alle promesse – o minacce? – fatte nei mesi precedenti. Gli USA non avrebbero imposto dei dazi, bensì “tariffe reciproche”, per rettificare le pratiche commerciali che, per anni, hanno contribuito all’aggravio di un persistente deficit commerciale. Di fatto, però, Trump annunciava uno sbarramento all’entrata erga omnes: un dazio del 10% applicato ai beni di tutti i paesi, dal 5 aprile 2025. E, dal successivo 9 del medesimo mese, sarebbero dovute partire le imposizioni daziarie suppletive, differenziate per paese: dal 10% fino al 50%, per una sessantina di paesi, tra cui l’Ue (in blocco, senza distinzione di stato).

Si tratta di dazi ad valorem aggiuntivi – quindi al netto dei costi di trasporto – da applicare fino a quando lo avrebbero richiesto le condizioni: fino a quando, cioè, non sarebbero stati riequilibrati i flussi commerciali, con la risoluzione o la mitigazione delle distorsioni al commercio statunitense. All’Ue è toccato un dazio suppletivo del 20%, inferiore a quello del Giappone (+24%) o della Svizzera (+31%), mentre Israele e Regno Unito, ad esempio, sono stati trattati meglio (10%), in forza degli storici rapporti economici e commerciali. La vincitrice (in negativo) è, però, la Cina.

Una settimana di sconforto globalizzato: è questo il tempo che è intercorso dal Liberation Day al dietrofront di Trump. Il 9 aprile 2025, dopo poche ore dalla controrisposta Ue, l’amministrazione americana annuncia una sospensione di 90 giorni per i dazi ad valorem (quelli, cioè, che sarebbero dovuti partire proprio lo stesso giorno). Il motivo? Premiare l’impegno mostrato dalla comunità imprenditoriale per gli sforzi fatti nel trovare una soluzione diplomatica alla questione. Un impegno mostrato da tutti tranne che da Pechino, che vede acuirsi le imposizioni fino a un +125%, con effetto immediato. Restano quindi solo (al momento in cui scriviamo, nda) le imposizioni erga omnes del 10%, in vigore dal 5 aprile. Per tutte le altre se ne parlerà ad inizi luglio 2025. Intanto, la dilazione temporale concede spazio e tempo alle trattative. Ma anche ai colpi di scena, come nel caso dell’automotive.

L’automotive nel mirino dei dazi

Il 13 febbraio 2025 l’amministrazione Trump ha presentato il Fair and Reciprocal Plan, una strategia volta ad aggiustare le imposizioni tariffarie, prevedendo la reciprocità dei dazi tra USA e tutti gli altri paesi. Questo perché il paese non sarebbe stato più disposto a “tollerare pratiche commerciali sleali”. In particolare, Trump mette sotto accusa l’automotive made in Europe, che è sempre entrata negli USA con un’imposizione del 2,5%, mentre Bruxelles avrebbe applicato un dazio del 10% alle auto prodotte negli Stati Uniti. È forse anche questa iniquità la causa del deficit commerciale americano, così come l’IVA imposta anche alle imprese extraeuropee – tassazione non prevista, invece, nel sistema americano.

Dunque, con l’applicazione del cosiddetto “principio di reciprocità”, sarà possibile riequilibrare il commercio estero e rinsaldare la produzione locale americana. Con i dazi all’automotive (annunciati il 27 marzo 2025 e in vigore dal successivo 2 aprile, con una imposizione del 25% sulle auto prodotte fuori dai confini statunitensi), le case automobilistiche dovrebbero spostare le loro produzioni negli Stati Uniti. Un duro colpo per l’Unione: il mercato statunitense rappresenta la prima destinazione delle vendite regionali (il 25% sul totale globale), con un export pari a 38.4 miliardi nel 2024.

Dalla moratoria generale del 9 aprile, l’automotive è esclusa. Tuttavia, a fine aprile, dopo poco meno di un mese dall’inizio delle imposizioni, l’amministrazione annuncia una possibile riduzione tariffaria (per due anni) sui componenti esteri utilizzati per l’assemblaggio di veicoli negli USA. Il 30 aprile 2025, infatti, il presidente firma un ordine esecutivo e ridimensiona le imposizioni per evitare che le case automobilistiche statunitensi subiscano il cumulo delle tariffe, in considerazione di quelle già in vigore su acciaio e alluminio, due prodotti usati nel comparto automotive. Sarebbe effettivamente troppo. Inoltre, si inizia anche a parlare di possibili meccanismi di rimborso retroattivi per le aziende che dimostreranno investimenti nella produzione locale. Ma, nel momento in cui si scrive, sono solo rumor.

La possibile imposizione daziaria penalizza la meccanica italiana, con conseguenze per l’export di macchine e attrezzature, le cui vendite nel 2024 hanno raggiunto i 12.4 miliardi di euro.

La reazione dell’Ue e le possibili complicazioni

L’Unione europea ha mostrato un’eleganza e una flemma non scontate, nella gestione della querelle dei mesi scorsi. Si è trovata a subire una scelta esterna senza esserne, inizialmente, pronta. Dopo aver superato lo shock causato dal forte senso di sfiducia nei confronti di un partner storico quale gli USA, ha reagito senza farsi intimorire. Ha messo in mostra sul tavolo il suo famoso “bazooka” pronto all’uso, qualora necessario – in una colorata immagine circolata per giorni, mentre si cercava una valida controrisposta.

In linea con la scelta della comunità internazionale – di evitare una iper reazione aggressiva alle dichiarazioni e imposizioni di Trump, evitando l’acuirsi della guerra commerciale – il 9 aprile 2025 l’Ue ha introdotto le sue contromisure commerciali nei confronti degli Stati Uniti, con il “Regolamento di esecuzione”. L’atto è corredato da quattro allegati con le liste dei prodotti soggetti a dazi, e le relative aliquote. Vengono riprese le voci del 2018, quando Bruxelles fu “costretta” a introdurre i dazi di ritorsione per le tariffe applicate ad acciaio e alluminio oltreoceano (+25% e +10%), durante la controversia Boeing-Airbus. Si tratta di contromisure che valgono 20.9 miliardi di euro. Inizialmente, prima della sospensione dei 90 giorni, era prevista una timeline di riscossione stabilita in tre tempi: a partire dal 15 aprile 2025, per 3.9 miliardi di euro di scambi commerciali, dal 15 maggio per 13.5 miliardi di euro e dal 1° dicembre, per la restante quota. Al momento, però, è tutto congelato, in attesa di comprendere se le tempistiche dovranno essere traslate in avanti – nel caso si torni all’imposizione come inizialmente stabilito – o se, come tutti sperano, il Regolamento resti nel cassetto, in attesa di non essere più (ri)tirato fuori.

Ma, in tutto ciò, e al di là della controreazione, quali sono davvero i rischi per l’Ue? Cosa preoccupa, più di tutto? Ebbene, la risposta appare scontata: il mercato USA è il primo partner dell’Unione e, qualora venissero riconfermati i dazi, il commercio estero ne risentirebbe fortemente. Ma c’è un altro aspetto che inquieta, con un effetto indiretto per le produzioni europee. Oltre a capire dove veicolare il proprio export, Bruxelles dovrà fare i conti con un pericoloso import che arriva da Est. Se Trump decide di bloccare il prodotto cinese – con un’imposizione da sbarramento superiore al 100% – che ne sarà del made in China?

In tempi non sospetti – era il 18 febbraio 2025 – a questa domanda aveva risposto Mario Draghi, in audizione al Parlamento europeo: tutto ciò che non può dirigersi verso il mercato statunitense rischierà di collocarsi in Europa. Ma lo aveva detto anche la società di ricerca e consulenza Forrester, prevedendo altresì un aumento della presenza di imprese asiatiche nel Vecchio Continente. In quel caso, però, si parlava di “opportunità” in grado di trasferire le conoscenze in entrambe le direzioni. A primo acchito l’idea spaventa, in un momento già instabile di suo. Ma chi lo sa: da questa situazione potrebbe derivarne comunque qualcosa di buono. Da ogni evento (o impedimento) si trae un insegnamento (e speriamo anche un giovamento). Lo sapremo a breve.

Cosa rischiano gli USA?

Se a luglio 2025 Trump dovesse tornare indietro, restando immobile sulle sue politiche protettive, non sarà solo il resto del mondo a subirne le conseguenze. È partito un boomerang pericoloso, che potrebbe mietere vittime lungo il suo inspiegabile percorso, ma anche nella veloce fase di rientro alla base. Con l’imposizione daziaria si regolarizzerebbe l’asimmetria delle esportazioni materiali con l’UE e si correggerebbe la deindustrializzazione degli USA. Ma ci potrebbero essere anche molte altre conseguenze per il mercato americano.

La tassa doganale provocherebbe un aumento dei costi sui beni importati, con l’obiettivo di proteggere l’industria nazionale. La soluzione, quindi, sarebbe non comprare più beni esteri. Ma non è semplice modificare le abitudini decennali di una popolazione e l’alternativa di spesa (scegliendo cioè made in USA) non è sempre così automatica. Si registrerebbe un aumento dei prezzi, un’impennata dell’inflazione e una perdita del potere d’acquisto del cittadino medio, con una conseguente contrazione delle spese anche indirizzate al prodotto locale. Per non parlare, poi, dell’effetto sulle borse. È vero che si tratterebbe di uno shock momentaneo (come già successo nelle scorse settimane), ma l’altalena dei mercati azionari impoverisce direttamente il cittadino, considerando che la maggior parte del risparmio statunitense finisce in borsa.

La meccanica italiana

La possibile imposizione daziaria pone importanti sfide al settore meccanico italiano, con gravi conseguenze per investimenti, inflazione ed export verso il mercato d’oltreoceano, primo Cliente dei macchinari e impianti made in Italy. Nel 2024, gli USA sono stati la principale destinazione delle produzioni italiane settoriali, con vendite pari a 12.4 miliardi. Sebbene il prodotto italiano possa vantare una indiscutibile eccellenza, molti macchinari pur essendo tailor made, sviluppati cioè per specifiche imprese, sono comunque sostituibili. E questo rappresenterebbe una perdita di quote di mercato, negli USA, a favore di quelle imprese gravate in maniera minore dal dazio. Differentemente da altri settori – come la farmaceutica, ad esempio – i componenti sono facilmente replicabili.

La notizia “tristemente positiva” è che, però, tutti i competitor della meccanica italiana si trovano nella medesima situazione dell’Italia. Le imprese europee sono gravate ugualmente dal dazio del 20%. E le cinesi stanno messe ancora peggio. Dunque, in attesa di capire come evolverà la situazione, le aziende del comparto meccanico potrebbero iniziare a guardarsi intorno, se non lo stanno già facendo: devono puntare, cioè, verso mercati alternativi di sbocco, come quello sudamericano, con il Messico in prima linea, approfittando del trattato Ue-Mercosur. O iniziare a considerare il continente africano, in forza del Piano Mattei.

Dal GATT al Liberation Day

Il 30 ottobre 1947, a Ginevra, viene siglato il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), un accordo internazionale, inizialmente vincolante tra 23 stati, che pone le basi per un sistema multilaterale di relazioni commerciali. Lo scopo? Favorire la liberalizzazione del commercio mondiale, attraverso l’eliminazione delle barriere tariffarie (dazi) e non tariffarie – ovvero le regolamentazioni protezionistiche non fiscali del commercio estero, utilizzate per limitare la circolazione delle merci.

Nel 1995 si passa dall’Accordo Generale alla creazione di un vero e proprio organismo regolatore: nasce così la WTO (World Trade Organization), che include anche il GATS (Trattato generale sul commercio dei servizi) e il TRIPS (Trattato sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale). Dunque, se il GATT aveva l’obiettivo di ridurre i dazi applicati agli scambi internazionali di prodotti manufatti, con la WTO si fa un passo in avanti: oltre al commercio dei beni vengono regolati anche gli scambi di servizi e i diritti di proprietà intellettuale. E poi cos’è successo? Perché (o per chi) stiamo tornando al punto di partenza?

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