La prova di resilienza: un colloquio con l’impatto

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La prova di resilienza, oggi standardizzata dalla norma UNI EN ISO 148-1:2016, viene utilizzata in tutto il mondo per garantire la sicurezza e l’affidabilità dei materiali.

Affrontiamo un tema che, sebbene per molti operatori, potrebbe risultare poco noto, in realtà riveste un ruolo di fondamentale importanza: la prova di resilienza, detta anche “prova Charpy“.

Questa prova è essenziale per valutare la capacità di un materiale di resistere a impatti improvvisi, un aspetto cruciale in numerosi settori dell’ingegneria e della costruzione.

Dopo la pandemia causata dal virus Covid19, chiunque coglie spesso l’occasione per parlare di “resilienza”: politici, uomini di affari, influencer e chi più ne ha più ne metta. Nel caso in esame, invece, si tratta di un ambito totalmente diverso.

Un po’ di storia

La prova di resilienza nasce nei primi anni del Novecento, grazie all’ingegnere francese Georges Augustin Albert Charpy.

L’idea era di creare un metodo semplice e diretto per determinare quanto un materiale fosse “duro” e capace di assorbire l’energia durante un impatto.

Oggi, questa prova è standardizzata dalla norma UNI EN ISO 148-1:2016 e viene utilizzata in tutto il mondo per garantire la sicurezza e l’affidabilità dei materiali.

In cosa consiste la prova di resilienza?

In parole povere, si tratta di un test che misura la quantità di energia assorbita da un materiale quando viene colpito da un oggetto, nella prova rappresentato da un pendolo.

Essa si svolge utilizzando una provetta standardizzata, sottoposta a un impatto violento: l’energia, assorbita durante la rottura, è un indicatore della resilienza del materiale. Immagina di essere un ingegnere che deve scegliere il materiale giusto per costruire un ponte.

È fondamentale sapere se il materiale sarà in grado di resistere a carichi improvvisi, come quelli causati da un incidente stradale o da un evento naturale. Ecco: proprio qui entra in gioco l’importanza della prova di resilienza.

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