Dazi o non dazi, questo è il dilemma

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Una delle frasi più note del geniale Einstein fu: “Non so con quali armi si combatterà la terza guerra mondiale, so però quelle che si useranno nella quarta: le clave”. Purtroppo, in questi mesi c’è un’altra arma che sta dando brutta manifestazione di sé in ambito economico: i dazi. C’è chi, nel modo “classico”, li introduce aumentando l’aliquota doganale di un prodotto in base ai più svariati parametri, e chi, come l’Europa, si autoflagella, con sanzioni (vedi Russia) che si ripercuotono inevitabilmente sulle proprie esportazioni verso questi paesi.

Ma diamo un’occhiata a quali sono le nazioni più protezioniste. Ancorché sia piuttosto difficile fare delle medie (alcuni beni sono più protetti di altri, e con differenze notevoli), davanti a tutti ci sono le Bahamas, con dazi medi che si aggirano attorno al 35%. Tra i primi venti paesi, tredici sono africani, ma per dimensioni si fanno notare anche stati come l’Argentina e il Brasile, che, ad esempio, si attesta attorno al 13%. Molto meno… esose sono le grandi economie: l’Europa è a quota 3%, gli Stati Uniti al 2,4%, la Cina al 4,4% e la Russia al 5,9%. Cifre che appaiono non del tutto correlate con il rapporto tra importazioni ed esportazioni. Gli USA, ad esempio, pur essendo il paese più liberista, importano merci straniere per 2.250 miliardi di dollari, malgrado ne esportino “solo1.450. L’Europa è più o meno in pareggio (import 1.980 miliardi di dollari, export 1.900), mentre apparirebbero, numeri alla mano, più utili i dazi cinesi, visto che a Pechino si esporta ben più di quanto si importi (2.100 miliardi contro 1.580). Ma l’impressione è, in questo caso, che a fare la differenza non sia tanto l’influenza della sovrattassa doganale, quanto i bassi prezzi delle merci cinesi.

Quel che sembra evidente è che sino ad oggi i dazi non abbiano inciso più di tanto sugli equilibri dell’economia mondiale. In altre parole, i dazi (e, in particolare, gli annunci del loro inasprimento) sembrano più rispondere ad esigenze politiche – cioè all’ottenimento del consenso da parte dell’elettorato – che a scopi economici. Anche perché, a ben vedere, oltre un certo limite ostacolare l’approvvigionamento di merci da paesi esteri può contribuire ad aumentare la domanda di quelle stesse merci e ad aumentarne i costi, con effetti sull’inflazione. Quando poi si tratti di una materia prima, la sua mancanza può portare anche a riduzioni della produzione dei prodotti con la quale questi ultimi si costruiscono, con ricadute negative anche sull’occupazione.

Riassumendo…

Insomma, fino ad oggi, i dazi sembrano essere uno spauracchio, in grado di alimentare un clima di sfiducia nell’economia. Per questo è necessario che chi oggi disegna la politica economica mondiale tenga conto innanzitutto delle esigenze della comunità, piuttosto che del tornaconto elettorale. Questo è tanto più vero per l’Italia, che nel 2017 ha chiuso la sua bilancia commerciale con una differenza positiva di 47.5 miliardi di euro, una cifra che da sola dimostra come il nostro paese abbia bisogno di frontiere sempre più aperte.

di Ermes Ferrari

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