Ecco la nuova carbon tax dell’Ue

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Si chiama CBAM e partirà a ottobre, con entrata in vigore completa nel 2026. Gli importatori europei di acciaio e alluminio (ma non solo) dovranno pagare per le emissioni di gas serra generate durante la produzione di questi materiali

In gergo tecnico lo chiamano Cbam: è probabile che nel giro di pochi anni quasi tutte le aziende del settore manifatturiero dovranno imparare a familiarizzare con questa sigla. Significa Carbon Border Ajustment Mechanism: letteralmente “meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere”. Un sistema che ha l’obiettivo di proteggere il clima e le aziende dell’Unione europea. Il tema, in sostanza, è quello di cui si dibatte da tempo. Se la crisi climatica è globale, tutti i Paesi del mondo devono fare la propria parte nel ridurre le emissioni. Ma cosa succede se l’Europa impone regole stringenti e altri continenti restano con le mani in mano, proprio come sta avvenendo sotto i nostri occhi? Non c’è il rischio che le aziende nostrane, per evitare di dover sottostare ai nuovi regolamenti, spostino le produzioni fuori dai confini europei, oppure smettano di produrre e si affidino sempre di più alle importazioni? Il Cbam punta proprio a evitare questo scenario. “Contribuirà a ridurre le emissioni a livello globale garantendo nel contempo condizioni di parità tra le imprese”, è la sintesi fatta dalla Ue nel presentare il nuovo strumento normativo.

Cinque atti, parte del pacchetto Fit for 55%

Il meccanismo è stato approvato lo scorso 25 aprile dal Consiglio dell’Ue. Non è stata l’unica riforma varata quel giorno. Il Cbam è incluso in una serie di cinque atti legislativi che, secondo Bruxelles, «consentiranno di ridurre le emissioni di gas a effetto serra nei principali settori dell’economia, garantendo nel contempo che i cittadini e le microimprese più vulnerabili, nonché i settori esposti al rischio di rilocalizzazione delle emissioni di carbonio, ricevano un sostegno efficace nella transizione climatica». I cinque atti fanno parte del pacchetto “Fit for 55%”, cioè “Pronti per il 55%”. Si tratta della realizzazione pratica delle politiche con cui l’Ue ha promesso di ridurre le sue emissioni nette di gas serra di almeno il 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990, e di raggiungere la cosiddetta neutralità climatica entro il 2050. Di che si tratta? A parte il meccanismo per ridurre l’importazione di prodotti ad alto tasso di emissioni, i cinque provvedimenti riguardano l’istituzione di un Fondo sociale per il clima (servirà per finanziare misure a sostegno dei cittadini e delle piccole imprese colpite dall’innalzamento dei prezzi) e la direttiva Ets, i cui obiettivi di riduzione delle emissioni sono stati innalzati allargando la platea degli aderenti. Concentriamoci però sul Cbam, la nuova carbon tax: senza dubbio la misura che impatterà maggiormente sul settore manifatturiero italiano, in particolare su quello della meccanica.

Si chiama CBAM e significa Carbon Border Ajustment Mechanism, il regolamento europeo che disciplina il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere e che mira a promuovere un’economia più green

Settori coinvolti, obblighi e “certificati Cbam”

Siderurgia, alluminio, cemento, fertilizzanti, idrogeno, energia elettrica: inizialmente il Cbam riguarderà questi settori. Il Regolamento 2023/956, che dopo essere stato varato dal Consiglio dell’Ue è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale, prevede infatti a partire da ottobre di quest’anno alcuni obblighi in capo agli importatori europei di questi prodotti. In sostanza dovranno controllare e comunicare alle autorità europee la quantità di emissioni climalteranti incorporate in questi beni, cioè quelle generate per realizzare i prodotti. Inizialmente si tratterà solo di comunicare i dati, ma nel futuro prossimo sarà necessario anche mettere mano al portafoglio. Il meccanismo studiato dalle autorità europee funzionerà infatti in modo simile al sistema Ets, il principale mercato dell’Ue per i crediti di carbonio, riservato per ora alle industrie ad alta intensità energetica, al settore della produzione di energia, a quello del trasposto aereo e, a breve, a quello marittimo. Semplificando al massimo, il sistema Ets funziona così. L’impresa comunitaria deve rispettare un limite alle emissioni prodotte: se lo supera è tenuta a pagare, e questo dovrebbe spingerla a inquinare meno. Nella pratica ogni anno l’azienda riceve (in parte gratis, in parte pagando) una quantità di crediti di carbonio: ciascun titolo corrisponde alla possibilità di emettere una tonnellata equivalente di anidride carbonica. Se non vuole essere multata, alla fine di ogni anno l’impresa deve restituire un numero di crediti sufficienti a coprire le emissioni oltre il limite. Se però l’azienda ha inquinato più del previsto, può comprare i crediti mancanti da chi ne ha in eccesso.

Funzionamento del CBAM e prodotti contemplati

Il Cbam ricalca una logica simile e, nelle intenzioni della Ue, dovrebbe essere complementare al sistema Ets. Quest’ultimo si applica infatti alle aziende che producono nell’Ue, le quali devono dunque sopportare costi maggiori dati proprio dai crediti di carbonio. Chi invece produce fuori dai confini comunitari non ha sul groppone questi costi. Ecco dunque il pericolo. Le produzioni ad alta intensità di carbonio potrebbero essere trasferite in Paesi con politiche climatiche meno rigorose. E i prodotti importati potrebbero risultare vantaggiosi in termini di prezzo, ovviamente a spese dell’ambiente. Nasce da qui l’esigenza di introdurre i “certificati Cbam”, corrispondenti a una tonnellata di emissioni incorporate nelle merci. Per rispettare il regolamento, le aziende importatrici dovranno acquistare dagli Stati membri dell’Ue un numero di certificati sufficiente per coprire il quantitativo di emissioni incorporate nelle merci acquistate fuori dai confini comunitari. La compravendita dei certificati avverrà attraverso una piattaforma gestita dalla Commissione europea, alla quale spetterà il compito di registrare il prezzo e la data di vendita del certificato acquistato. Quanto si spenderà? Prevederlo non è facile, perché i prezzi saranno sottoposti alle fluttuazioni del mercato. Il costo dei certificati Cbam si baserà infatti sul prezzo medio d’asta settimanale delle quote Ets, cioè il sistema già utilizzato oggi dall’Unione europea.

Esportazione di prodotti CBAM verso l’Europa, per Paese (2019)

(Fonte: Elaborazione basata su dati COMTRADE)

Costi in aumento per gli importatori europei

Di certo, per chi punta molto sulle importazioni extraeuropee di certi prodotti, i costi sono destinati ad aumentare, e così di conseguenza su tutta la catena del valore. Non a caso Assofermet, l‘associazione presieduta da Riccardo Benso – che rappresenta circa 440 imprese attive nel commercio, distribuzione e prelavorazioni di acciai, metalli, rottami e ferramenta – ha già criticato apertamente l’introduzione del Cbam, descritto come «un vero e proprio dazio ambientale all’importazione di acciaio e alluminio: le prospettive per un libero commercio, sostanzialmente scevro da barriere e vincoli burocratici, si allontanano sempre di più dal territorio dell’Unione», ha fatto sapere l’associazione. D’altra parte, è pur vero che al momento buona parte del mondo non ha una tassa sul carbonio; di conseguenza le aziende che producono in Europa si trovano in una situazione di evidente svantaggio competitivo. Tutto ciò dando per scontato la necessità di ridurre al più presto le emissioni di gas serra: secondo l’ultimo rapporto dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change, l’organismo delle Nazioni Unite istituito per studiare i cambiamenti climatici), se non verranno adottate strategie di mitigazione delle emissioni sarà infatti impossibile raggiungere gli obiettivi fissati dagli Accordi di Parigi e mantenere al di sotto di 1,5° C l’aumento medio delle temperature globali rispetto al livello pre-industriale.

Un processo graduale in vista del 2026

Fatta questa premessa, l’introduzione del Cbam sarà graduale. Come detto, a partire dal prossimo ottobre sono previsti degli obblighi di comunicazione. È però dal 2026 che le cose cambieranno davvero, perché da quel momento gli importatori dovranno cominciare a sostenere dei veri e propri costi per i certificati. Da allora, entro il 31 maggio di ogni anno, sarà infatti obbligatorio restituire al registro comunitario un numero di certificati Cbam corrispondente alle emissioni importate. Insomma, bisognerà pagare per importare acciaio, ghisa, alluminio, cemento, fertilizzanti, idrogeno, energia elettrica. Questi sono al momento i prodotti inclusi nel regolamento. Ma, come scrive sul suo sito il Consiglio dell’Unione europea, “in futuro l’ambito di applicazione del Cbam dovrebbe essere esteso ad altri settori”.

Impatto negativo anche sui Paesi esportatori

Le conseguenze negative potrebbero riguardare non solo gli importatori. Ad osservare con preoccupazione la nuova carbon tax europea sono soprattutto i Paesi produttori, in particolari quelli più poveri, perché rischiano di subire un forte contraccolpo. Il Cbam potrebbe infatti far diminuire le esportazioni di questi Paesi verso l’Ue e accrescere perciò la disoccupazione. Secondo un rapporto di Chatman House del 2021, tra il 2015 e il 2019 la maggior parte dei prodotti sottoposti a Cbam sono arrivati in Ue da Russia, Cina, Regno Unito, Turchia, Ucraina, India, Corea del Sud e Stati Uniti. Si tratta, quasi in tutti i casi, di Paesi economicamente forti, che dovrebbero avere gli anticorpi per contrastare la botta, anche perché i prodotti coperti dalla nuova tassa rappresentano una quota relativa rispetto a quanto esportato da loro in generale. Secondo uno studio del 2022 dell’Agenzia francese per lo sviluppo, a rischiare maggiormente sono invece Paesi più piccoli, fortemente dipendenti dalle esportazioni di prodotti Cbam verso l’Ue. Il più esposto è il Mozambico: quasi il 20 per cento delle sue esportazioni è rappresentato da prodotti sottoposti al Cbam, in particolare alluminio. Seguono, secondo la ricerca, Bosnia-Erzegovina, Ucraina, Serbia, Macedonia del Nord, Montenegro, Zimbabwe, Moldavia, Albania. Come è evidente, si tratta in quasi tutti i casi di Paesi a basso reddito, situati in Africa o ai confini dell’Ue. Insomma, il meccanismo studiato dall’Ue per raggiungere gli obiettivi climatici e contrastare la crisi ambientale potrebbe impoverire Paesi vicini. E far così aumentare la spinta migratoria. A meno che l’Ue decida di utilizzare i soldi raccolti attraverso il Cbam, o almeno una parte, per sviluppare l’economia di quei Paesi.

(di Stefano Vergine)

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